di Iannozzi Giuseppe
Arrivò il caffè: la kellerina glielo mise sotto al naso insieme ad un notevole spaccato di tette, ma l’uomo non palesò alcun interesse e solo si limitò ad osservare le spire di fumo del nero che gl’era stato deposto davanti. Non s’offese nessuno, e come era venuta, quella ch’era probabilmente la figlia dell’oste se ne andò. ‘E’ nata per essere una cameriera. Lei lo sa. Ce l’ha scritto in faccia. Un marchio di fabbrica.’ – pensò il vecchio poeta buttando giù l’ultimo sorso di caffè; poi s’accese una sigaretta.
* * *
Il Vecchio Faggio era un posto tranquillo, pochi avventori e niente musica: odiava la babele dei locali moderni, anche di quelli raffinati e costosi che, volendo, avrebbe potuto permettersi senza batter ciglio. La vecchia pendola addossata al muro segnava le ventidue: non era troppo tardi, avrebbe continuato ad impiastricciare tovaglioli coi versi che gli venivano, poi li avrebbe usati per nettarsi la bocca. S’era risolto di passar così un po’ di tempo, quando una voce alle spalle lo fece sussultare. “Ma lei è Pround!”
Il vecchio poeta alzò lo sguardo su chi aveva parlato: dimostrava una quarantina d’anni, non di più, anche se era già stempiato e il labbro inferiore gli pendeva simile ad un’appendice. Un volto inutile, o troppo simile a mille altri perché potesse suscitare interesse.
“Potrebbe essere. Ma non è importante.”
Lo straniero annuì con la testa. “Posso sedermi al suo tavolo?”
“Se lo desidera. Ma io ho finito.”
“Sì, questo l’avevo capito.”
“Ed allora?”
“Meglio una compagnia di pochi minuti ad un’assenza!” – sentenziò lo straniero, che continuava a restare in piedi.
“E lei…”
Lo straniero arrossì. “Chiedo venia. Non mi sono presentato.”
“Oh! Non è richiesto presentarsi. Non lo faccia. Non c’è bisogno d’una simile formalità. Piuttosto s’accomodi.”
Lo straniero si mise a sedere: adesso erano l’uno di fronte all’altro. Se fosse passato un ritrattista da quelle parti, avrebbe detto che quei due erano lì da sempre.
“Lei è il famoso poeta, Pround. Non sbaglio…”
Il vecchio non disse nulla, ma lo fissò negli occhi. Poi abbozzò un mezzo sorriso, indefinito. “Lei fuma?”
“Purtroppo sì.”
“Ed allora…” – e così dicendo, gli porse il pacchetto di Davidoff. “Non faccia complimenti.”
Lo stranierò sfilò una sigaretta dal pacchetto, l’annusò e presto il fuoco d’un cerino gliel’accese. “Grazie!” – bofonchiò dopo la prima boccata. Intanto la kellerina era venuta a prendere l’ordinazione del nuovo venuto.
“Cosa desidera?”
“Il piatto della casa… Un quarto di vino…” – ordinò distrattamente. “Faccia lei, per cortesia.” Quella non fece una piega: era abituata alle stranezze dei clienti. Com’era venuta così se ne andò.
“E lei, che desidera da un vecchio?”
“Solo un po’ di compagnia.”
“Nient’altro? Ne è sicuro?”
“Per dire la verità, l’ho riconosciuta e non ho saputo frenarmi.”
“Capisco.” Un silenzio fra i due, lungo, interminabile come l’infinito ma senza imbarazzo. “Lei scrive?”
“Una volta scrivevo. Come ha fatto a capirlo?”
“Il callo dello scrittore: ce l’ha ancora. E’ impresso sulle sue dita.”
“Ah! E’ un buon osservatore. Credo d’aver scritto parecchio. Ma tutta robaccia senza significato né per me né per gli altri.”
“Ed allora, perché ha scritto?”
“Per tornare ad essere un uomo normale.”
“Poesia o prosa?”
”Quello che mi veniva. Fu tempo sprecato ma necessario, altrimenti non sarei mai tornato ad essere un semplice anonimo.”
Il vecchio poeta, questa volta, gli sorrise malizioso, interessato quasi. “Ad un primo sguardo, m’era sembrato uno dei tanti, un invalido. Ce ne sono tanti al mondo.”
“La franchezza mi piace. Ce n’è poca a questo mondo. Una questione di educazione perduta.”
“Quando la vanità si placa l’uomo è pronto a morire e comincia a pensarci.”
“Ennio Flaiano. Sì, rammento.” Spense la sigaretta nel portacenere: l’aveva fumata tutta, nel giro di pochi minuti, senza perdere né una battuta del vecchio poeta né una boccata. Poi aggiunse: “Essere pessimisti circa le cose del mondo e la vita in generale è un pleonasmo, ossia anticipare quello che accadrà.”
“Vedo che ci intendiamo. Perché è venuto proprio al Vecchio Faggio?”
“E’ un buon posto. Mi aiuta a pensare non pensando.”
“Sta arrivando la sua cena.” La kellerina aveva apparecchiato, un piatto fumante di pasta, un quarto di vino, un po’ di pane, una brocca d’acqua.
“Forse è il caso che me ne vada…” – disse il vecchio poeta.
“A me non dispiace la compagnia.”
“Resterò ancora un po’ se le fa piacere.”
“Perché ha smesso di scrivere?”
“Non ho smesso. Scrivo sempre.”
“Però non pubblica.”
“I tovaglioli su cui scrivo sono spazzatura che io non voglio pubblicare. E poi non è importante aggiungere versi ai già tanti che circolano in tutte le edizioni possibili ed immaginabili.”
“Si riferisce a se stesso.”
“Anche. Oggi tutti scrivono poesia. Perché dovrei prendermi il disturbo?”
“Già, non ce n’è motivo. Però mi dispiace.”
“Mangi prima che si raffreddi.”
Lo straniero prese a mangiare, velocemente. Intanto il vecchio poeta scriveva versi sui tovaglioli di carta, poi si nettava le labbra screpolate fino a farle sanguinare, e cestinava versi, sangue e tovaglioli di carta.
“Adesso ci vorrebbe un buon caffè.” La kellerina venne nel tempo d’un momento: prese l’ordinazione e scivolò via. Tornò quasi subito con un caffè fumante.
“Spesso la donna italiana è cuoca in salotto, puttana in cucina e signora a letto.”
“Sempre Flaiano.”
“Già. La donna è come la poesia. Lei è d’accordo?”
“Non saprei.” Arrossì. “Non scrivo più da una lunga pezza.”
“Allora siamo d’accordo!” – sentenziò il vecchio poeta.
“Ma lei non mi ha ancora risposto.”
“Capisco. Vuole che mi presenti formalmente. Ma a che servirebbe? Lei dice d’avermi riconosciuto. Non le basta forse?”
“Lei ha ragione.”
“S’è fatto tardi, almeno per me. Offro io.”
Lo straniero stava per balbettare qualcosa, ma il vecchio poeta gli fece capire con un’occhiata gelida che non avrebbe accettato repliche. S’alzò da tavola, andò al banco e pagò per entrambi.
* * *
I faggi scheletrici occupavano tutto il paesaggio e il cielo notturno era sudario su di essi posato: un alito di vento li commuoveva, e i due uomini, infreddoliti, camminavano fianco a fianco senza fretta, senza parlare quasi. Avevano i colli dei cappotti alzati e i nasi rossi per il freddo, non di certo per il vino annacquato che avevano bevuto.
“La vita è un turacciolo, un completo fiasco…” – recitò lo straniero, all’improvviso.
Il vecchio poeta non si scompose. “Ha raccolto i miei tovaglioli.”
“Mi sono permesso.”
“Non la sto accusando di niente. La spazzatura appartiene a chi la raccoglie.”
Lo straniero non disse nulla. Aveva le tasche gonfie di tovaglioli di carta, di versi. Era euforico, però non voleva che Pround se ne rendesse conto.
“Lei, in cuor suo, sta gongolando come un bambino.”
“Non posso negarlo…”
“E poi?”
“Io non sarei mai capace di scrivere versi simili.”
“Si sbaglia: tutti ne sarebbero capaci. Anche un bambino.”
“Io no.”
“Può pubblicarli, se vuole, a suo nome. Le appartengono ormai.”
Lo straniero arrossì violentemente. Ebbe una vertigine di contentezza. “Posso davvero?”
“Perché no? La spazzatura appartiene a chi la raccoglie. Mi sembrava d’averglielo già detto.”
“Ma non sarebbe giusto!”
“Giusto? Ingiusto? Dove e quale la differenza? Se ha bisogno di pubblicare, lo faccia e non ci pensi su due volte. Si prenda la gloria, se la sua poesia avrà successo. Prenda la gloria e se la goda. Un giorno, quando sarà vecchio, si renderà conto come me che non ne valeva la pena.”
“E dopo? Se li pubblicassi a mio nome, dopo non saprei più…”
“Continui a venire al Vecchio Faggio… Non posso assicurarle né dei buoni tovaglioli né che viva a lungo. Questo lo sa da sé. Ma è meglio puntualizzare.” Tossì. “E se le riesce, qualche volta scriva dei versi che siano suoi. Su dei tovaglioli, magari. Li inserisca insieme alla mia spazzatura. Nessuno se ne accorgerà. E diranno i suoi versi belli. Gliel’assicuro.”
“Come fa ad esserne così certo?”
“Quando un poeta muore lo sa da sé.” – decretò divertito. E subito aggiunse, in tono ironico quasi: “Al Vecchio Faggio! Al Vecchio Faggio! Quella kellerina, un giorno, potrebbe diventar sua moglie. Lei non vuole veramente essere normale come invece mi ha confessato.”
Lo straniero avrebbe voluto dire qualcosa in risposta, una giustificazione, una qualsiasi, ma il vecchio poeta era scomparso.
Il solo paesaggio possibile all’occhio dello straniero era la nebbia, una nebbia improvvisa e spessa, bianca come una pagina vergine. Come un tovagliolo di carta.
Morte all’alba – Iannozzi Giuseppe
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