“Morire – questo a un gatto non si fa. / Perché cosa può fare il gatto / in un appartamento vuoto? / Arrampicarsi sulle pareti. / Strofinarsi tra i mobili. / Qui niente sembra cambiato, / eppure tutto è mutato. / Niente sembra spostato, / eppure tutto è fuori posto. / E la sera la lampada non brilla più.”
I poeti non dovrebbero morire. Non solo per rispetto dei loro gatti, come suggeriva beffarda Wisława Szymborska, ma per rispetto dei loro lettori, occhiuti e nasuti amanti di versi sempre troppo personali. La gran dama della poesia contemporanea è morta nel sonno, a 88 anni, nella sua bella casa di Cracovia odorosa di migliaia di buoni libri. Wisława Szymborska, premio Nobel per la letteratura 1996, se n’è andata così “tranquillamente” come ha annunciato il suo assistente Michal Rusinek all’agenzia stampa polacca.
E’ morta nel modo che tutti immaginiamo migliore: quasi novantenne, nel sonno, senza soffrire. In questo sembra quasi che la morte, offesa da quei versi ironici di quel suo altro capolavoro “Sulla morte, senza esagerare“, in cui Szymborska alzava scettica il suo sopracciglio sulle capacità della commare secca e le stigmatizzava con queste parole: “Occupata a uccidere / lo fa in modo maldestro / senza metodo né abilità. / Come se con ognuno di noi stesse imparando” abbia voluto offrire alla più grande poetessa contemporanea una partita a scacchi da finire pari e patta, regalandole appunto l’uscita di scena migliore possibile: soffice, silenziosa, priva di dolore, rapida, in tarda età e dopo un Nobel. Una meraviglia. Una meraviglia?
Il comitato che assegnò a Szymborska il più importante riconoscimento culturale del mondo scrisse nella motivazione che il Premio Nobel le veniva assegnato “per aver creato della poesia che tramite ironica precisione permette di mettere in luce il contesto storico e biologico in frammenti di realtà umana.” E penso che i due frammenti adoperati per questo articolo rispecchino fedelmente le motivazioni del Comitato per il Nobel.
Nata a Prowent (oggi Kórnik, nella Polonia occidentale) il 2 luglio 1923, Szymborska si trasferisce nel 1931 a Cracovia, dove ha affrontato l’occupazione tedesca e poi la sovietizzazione. Sotto Hitler ha frequentato clandestinamente le scuole; sotto Stalin ha provato a pubblicare la sua prima raccolta di poesie, del 1948, che le fu però censurata in quanto non in linea con lo zdanovismo e il realismo socialista. Nonostante questo rifiuto, nel 1952 si iscrive al Partito comunista e aderisce ai canoni estetici imposti dal regime. Sono anni in cui la sua produzione cerca di legarsi maggiormente alle tematiche socio-politiche dell’epoca, con poesie come “A chi entra nel partito” e “Quel giorno” in occasione della morte di Stalin. I fatti di Praga segnano la rottura fra l’intellettuale e il Partito comunista, in solidarietà con l’amico Leszek Kołakowski, filosofo e storico delle idee polacco ostracizzato dalle autorità comuniste. Szymborska si schiera dalla parte del dissidente e perde tutti i privilegi acquisiti fino ad allora nella sua carriera, a cominciare dalla direzione della rivista Zycie Literackie “Vita Letteraria”, che ricopriva dal 1953. Dopo un primo matrimonio con il critico Adam Włodek, durato appena sei anni (1948-54), nel 1967 si risposa con lo scrittore Kornel Filipowicz, con cui rimane fino alla sua morte, nel 1990.
La poetica di Szymborska, almeno a partire dal 1957, vira per una visionarietà onirica che pare sempre voler giocare e mai prendersi troppo sul serio (“Le due scimmie di Bruegel”). E l’ironia rimane la cifra della sua produzione, un’ironia a volte esplicita, altre nascosta, ma sempre in grado di invertire l’ordine delle riflessioni comuni (“Lode alla cattiva coscienza di sé”, “Uno spasso”) e di alleggerire, beffarsi delle situazioni più penose (appunto “Sulla morte, senza esagerare”). L’ironia di Szymborska si prende gioco di tutto, soprattutto dei sentimenti e delle emozioni forti, ma tenendo sempre a bada il facile cinismo (“Un amore felice“). L’osservazione minuta della dura realtà in grado di ribellarsi e diventare prospettiva universale delle cose (“Scrivere il curriculum”, “Vista con granello di sabbia”, “La realtà esige”).
Szymborska era una di quelle penne inesauribili, troppo colme di talento per consentirsi una produzione stitica. Dodici raccolte di poesie pubblicate, centinaia di articoli sulla stampa di mezzo mondo, tradotti in decine di lingue sugli argomenti più disparati che possiate immaginare, traduzioni di poeti francesi, migliaia di aforismi. Non aveva certo timore di essere se stessa, davanti al foglio bianco, e ha lavorato fino all’ultimo giorno di vita, come testimoniato dalla sua ultima raccolta di poesie, che uscirà postuma alla fine del 2012, secondo quanto dichiarato sempre dall’assistente Resnik alla televisione polacca secondo la Associated Press.
Come affermò lei stessa, nel discorso di accettazione del premio Nobel: “Il poeta odierno è scettico e diffidente anche – e forse soprattutto – nei confronti di se stesso. Malvolentieri dichiara in pubblico di essere poeta – quasi se ne vergognasse un po’. Ma nella nostra società chiassosa è molto più facile ammettere i propri difetti, se si presentano bene, ed è molto più difficile ammettere le proprie qualità, perché sono più nascoste, e noi stessi non ne siamo convinti fino in fondo. In questionari o conversazioni occasionali, quando il poeta deve proprio definire la sua occupazione, egli indica un generico “letterato” o nomina l’altro lavoro da lui svolto. La notizia di avere a che fare con un ‘poeta’ viene accolta dagli impiegati o dai passeggeri sull’autobus con una leggera incredulità e inquietudine“.
Da stasera la lampada di Wisława Szymborska non brilla più. A noi gatti – e a noi lettori – non rimane che arrampicarci sulle pareti della sua poesia e ricominciare a leggerla, in modo che quella sua luce brilli fino all’esaurirsi della nostra luce.
Spczywaj w spokoju, Wisława.