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La morte ti fa bella di Robert Zemeckis. I would like to talk about Madeline Ashton
Creato il 03 aprile 2012 da SpaceoddityDa adulto, forse, il mio approccio è meno entusiastico, ma rimane il fatto che il sarcasmo feroce di questa commedia sui morti viventi di Los Angeles coglie nel segno delle debolezze di un mondo affamato di gioventù, e pronto a sbranarla, ma non di senso. La bellezza e la forza non sono spinte attive, ma strumenti di vendetta, oggetti da contemplare e da invidiare, impossibili da possedere in sé.
Non c'è la vita qui, ma una sua particolare manifestazione, che direi la spendibilità della propria supremazia. O, se c'è, la vita è una competizione, in un'eterna gara senza premi che possano compensarla davvero. Non c'è posto per i perdenti, e anche i vincenti si affannano; né ha speranze per chi non può sedurre. L'eterna lotta che unisce e divide Madeline Ashton (una splendida Meryl Streep) ed Helen Sharp (la maliarda Goldie Hawn) non riguarda l'occasionale innamorato di quest'ultima, poi marito dell'acerrima nemica, il pallido chirurgo plastico Ernest Menville (il bravissimo Bruce Willis), ma il potere di ciascuna sull'altra e sul resto del mondo.
La morte ti fa bella, in fin dei conti, è un film sul senso del tempo, dell'essere e del possesso. Non manca di soluzioni un po' banali o datate, insomma: appartiene in pieno a un'altra epoca. D'altra parte, proprio questo aspetto assume un fascino tutto peculiare, gli dà una patina di preveggenza e di straordinaria attualità, come di un messaggio da un'altra epoca pronto a rintracciare l'uomo di oggi con la sua nevrosi ancora più esasperata. Sembra che, a dispetto dei lunghissimi anni trascorsi, La morte ti fa bella si offra per reinterpretare le nostre ansie e insicurezze senza fine; ed è difficile individuare la ragione di tale successo se non nella geniale commistione di grottesco e di uno spietato realismo da cannibali.
In questa prospettiva, la trovata più riuscita, oltre alla prevedibile verità rappresentata dal povero, debolissimo Ernest, sta nell'invenzione del personaggio di Lisle von Rhuman (un'imprevedibile Isabella Rossellini). Dal suo palazzo fatato, custodito da aitanti ragazzoni di chissà quanti anni, che hanno bevuto anche loro qualche elisir di giovinezza o di vita senza storia, sembra cogliere il senso di quest'infelicità quando propone all'incontentabile Madeline a touch of magic in this world obsessed with science.
Va da sé che questo touch of magic è tutto tranne che trascendente e anzi rischia di perorare certi automatismi che un desiderio così unilaterale di felicità invece mortifica. Però proprio questo è il punto: a Ernest, che rappresenta la scienza, anche quando questa è al servizio dell'apparenza, Lisle offre un'apparenza irredimibile, un'apparenza senza via di ritorno, senza morte che ponga fine a questo infinito desiderio di un attimo di gloria... La vita meno lo scarto di ciò che non ne sappiamo usare: una giovinezza più seriale che eterna, senza futuro, inattingibile ai cambiamenti del domani, il rischio di un inciampo sulla corruzione dell'immagine stessa. Una giovinezza senza mai più le prime volte.
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