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"La mosca"

Da Astronautaperduto
Passa davanti al mio volto stanco, nel buio argenteo di questa notte di luglio e si muove scattando a zig zag. Con la mano provo a prenderla, la manco, sono lento e lei è sufficientemente desiderosa di libertà da sfuggirmi.
Constatavo semplicemente quanto fosse attaccata alla vita.
Lo è quanto basta, sono felice per lei.
Quella mosca potrà ancora vivere.
In realtà non volevo prenderla, sono già la vittima di quello che ero e non voglio uccidere nuovamente, sarebbe la mia quinta vittima e anche se in natura non ci sono processi e reclusioni, non voglio ucciderla punto e basta.
Forse, potrei farlo senza problemi, senza provare rimpianti, potrei farlo e basta, magari giustificandomi dietro la frustrazione che mi ammanta da ormai tanto, troppo tempo.
Ma ho smesso di uccidere.
Non sono più un assassino.
Sento quelle urla in fondo al corridoio ma ormai cerco di non badarci molto, ci sono abituato.
Un frocio viene conteso tra due che si propongono di fargli da protettore e scoppiano continue risse.
Urla, lamenti laceranti, pianti, spasimi che logorano.
Ho la barba lunga, non ho intenzione di radermi fin che vivrò, mi sento uno di quei santoni indiani che si incontrano a quel crogiolo di matti sulle sponde del Gange, l'ho letto su di un libro trovato giù in biblioteca.
La lascio crescere, la barba, per sentirmi protetto dal mondo e far dire in giro che sono matto, mi difendo così qui dentro, con la maschera del folle.
Sono tutti matti qui dentro, cerco di mimetizzarmi, di confondermi tra di loro.
Mi sono adattato, credo sia spirito di sopravvivenza.
Dalle 13 alle 15.30, in quella che in gergo chiamano “ora d'aria”, nessuno mi parla, sono il matto che ha ucciso e tutti mi stanno distanti, ed io certamente non vado a cercarli.
Solo un tale grassissimo si avvicina a me per chiedermi sigarette, è un fottuto pazzo di quelli veri e non gli rispondo neanche più.
Non ho mai fumato e lui lo sa, in realtà mi fa pena perché lo imbottiscono di merda.
L'unica cosa buona che sono riuscito a fare per me stesso è stata questa, tenermi gli uomini a distanza e non fumare.
Anche a mangiare sono solo, alle 11.30 la guardia mi chiama per il pranzo e mi metto in disparte senza incrociare lo sguardo di nessuno, forse sono gli altri a tenersi lontani da me, non io da loro.
Forse mi temono.
Un ragazzo che ora spaccia coca, lo conosco da sempre, ma non ho mai parlato con lui.
Credo che anche lui sia un assassino, o almeno lo sia stato.
Ho anche preso il vizio di dondolarmi continuamente, di muovere il busto avanti e indietro, come gli autistici, come un vero matto.
Lo faccio per essere ciò che non sono, per proteggere me stesso.
Ho un pensiero persistente in questa mia testa da bastardo in questa notte di luglio, non riesco a perdonare a me stesso che è finita, che la mia vita è letteralmente finita, e forse, non ha mai avuto il tempo di iniziare veramente.
Distrutta e sfregiata da queste mie mani da uomo che non ha avuto il tempo per essere giovane.
Questo mio presente sarà il mio futuro, è dannoso per me stesso credere che prima o poi potrò uscire e tornare finalmente libero di godere il mio tempo restante prima della fine, quella del corpo intendo, la mia anima è ormai perita nella muffa e nel salnitro che riempie queste lerce pareti colorate in un bianco che adesso è solo un color muffa chiazzato qua e là da un bianco che non intende lasciare il suo posto al perimento.
Sono la personificazione di uno di quie morti che le mie mani da ragazzino hanno stupidamente provocato.
Mi guardo le mani e sono ora mani da uomo.
Scorre il tempo, batte, segna con rughe e abbandoni.
Non ho più rivisto nessuno dei miei vecchi amici, solo mia madre e mia sorella ogni tanto passano a farmi una visita.
Invecchiato, sono invecchiato molto, la mia vita si è consumata qui dentro, in questo buco fetido a nord di Firenze.
Anche mia madre e mia sorella sono invecchiate e non ho potuto godere giorno per giorno il loro incanutire.
Sono solo come un cane, c'era un cane nella mia campagna che viveva solo in disparte, dormiva solitario tra i boschi, io la chiamavo Solo, veniva solamente per mangiare, ma non era del tutto solo lui, la sua era una scelta, un po' come la mia, ma solo un po'.
Solo, era solo come lo sono io, lui libero di errare nei boschi ed io nella mia stanza e c'è una bella differenza.
Cambierei il mio essere solo con l'essere solo di quel cane, ciecamente la cambierei.
Questa è una di quelle notti in cui scrivo senza pensare, lasciando al foglio e alla penna la possibilità di trafiggermi il corpo e scrutarmi l'anima, sbatterla e scuoterla fino a farla lacrimare, finalmente ravvivarla, provare ad accenderla per un poco, per smetterla di parlare mentalmente con il lavandino di ceramica che occupa l'angolo della parete sinistra sotto la minuscola finestrina dalla quale un po' di luce, facendosi forza, riesce ad entrare dalle sbarre, nei giorni di sole.
19 anni, 3 mesi, 8 giorni, 6 ore e qualche minuto.
Rinchiuso per un crimine commesso da un ragazzo che non sono più io.
Ora, sono solo il prodotto di quello che ero.
Ora, sono solo un finto matto che non accetta se stesso.
Avevo solo 14 anni quando sono entrato, adesso ne ho 33 e non sono più un uomo, sono un corpo che ascolta quel bastardo del tempo trascorrere inesorabile, tempo che mi lascia tra le mani il nulla che ho vissuto, il vuoto che mi distrugge.
Batte, continua a battere, insistentemente lui batte.
Compromessi, credo non sia possibile averne con lui.
Si arresta così, per inganno, solo in una di quelle strane notti in cui riesco a dormire.
Raramente riesco a dormire, in inverno è freddo, in estate è caldo, il cesso perde acqua continuamente, la stanza è insopportabilmente umida e schifosa, è lercia e tremendamente malsana.
Pagherò, sto pagando tutto, in parte ho già pagato, ma sono errori che marcano e impregnano lo spirito.
Non posso far altro che pagare e provare a dimenticare.
Non si dimentica, di prova semplicemente ad accettare ma non si dimentica, si convive con gli errori che diventano i maggiori nemici.
Vita sprecata la mia.
La televisione non l'ho voluta, vedere quello che succede fuori mi rende maledettamente più triste di quello che già sono.
Non esco mai sul ballatoio, c'è quel cazzo di marchingegno che rintocca i secondi, osservandolo, il tempo sembra scorrere ancora più lentamente.
Perché se ci penso, quello scorre piano ma costante, è questa la sua tecnica, il suo stratagemma per non essere mai stanco e fotterci tutti.
Le giornate sono infinite, lunghissime, interminabili, sono come le gocce del lavandino che perde acqua da sempre, ticchettano le gocce come lo fanno i secondi.
Mi guardo e vedo un uomo, un uomo che si chiede perché il tempo sia passato, se la pace in questa mia vita la troverà solo da morto.
Mi tengono compagnia i libri, ne leggo molti.
Caro tempo infame, sono un maledetto carcerato, forse morirò qua dentro se deciderai che sarà il mio tempo.
In molti, si sono ammazzati, io ci penso spesso.
Un tizio sano di mente, che ha capito che faccio finta di essere matto, vuole che partecipi ai loro corsi di pittura.
Prima o poi, spero di accettare questa mia situazione e perdonare me stesso per quello che ho fatto e ricominciare, o iniziare, finalmente  a “vivere”.
Sarò libero tra ventidue anni e in questa notte di luglio, ammiro fortemente quella mosca tanto attaccata alla vita.
Forse, domani andrò a pitturare qualcosa, così, per ingannare il tempo, perché quella mosca mi ha dato un briciolo di felicità.

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