di Mario Turco
Salmoni che nuotano controcorrente. Potrebbe essere questa la metafora scarna che delinea il percorso della stragrande maggioranza dei registi off-Hollywood, almeno tre generazioni di cineasti che hanno rinnovato dall’interno i paludati meccanismi produttivi delle major. David Cronenberg è l’archetipo perfetto dell’ultima grande ondata di questi professionisti. Come salmoni nel corso della risalita di un fiume, essi alternano momenti di indiscutibile furia agonistica verso la direzione delle acque (nel caso del regista canadese, si veda “Videodrome” e soprattutto il monolitico “Crash”), a momenti di stanca acquiescenza verso quel flusso (in particolare “La zona morta”). Uscito nelle sale nel 1986, scritto (insieme allo sceneggiatore Charles Edward Pogue) e diretto da Cronenberg, “La mosca” enfatizza eminentemente queste due caratterizzazioni all’interno di una singola opera. La pre-produzione è tipicamente mainstream: la Fox ha nel cassetto il remake del cult “L’esperimento del dottor K.” del 1958. Dopo una lettera scritta da Mel Brooks ai dirigenti dello studio affinché dessero il film a Cronenberg, il regista canadese rifiuta inizialmente il progetto perché a quei tempi era in trattative con Dino de Laurentiis per la direzione di “Atto di forza”. La produzione affida allora la pellicola a Robert Bierman che però, a poche settimane dall’inizio delle riprese, è costretto a rinunciare perché funestato dalla morte della figlia. Fallita nel frattempo la collaborazione con il produttore italiano, Cronenberg accetta la regia purché possa avvalersi della sua solita squadra di collaboratori, dal direttore della fotografia Mark Irwin al musicista Howard Shore (che anche in questo lavoro lascia musiche memorabili pur se autoreferenziali e avulse dal contesto generale). “La mosca” anticipa sin dai titoli di testa la tematica principale dell’opera. Inizia infatti su un totale dall’alto di un pubblico, il cui sfondo è contraddistinto da colori distorti e inumani.
È l’epifania anticipatrice di come il mondo sia visto da una mosca. La prima mezz’ora del lungometraggio è prettamente narrativa e scorre via senza scosse. I personaggi seguono questa logica: il protagonista è il solito geniaccio tutto scienza e casa (diroccata, abita infatti in un monolocale scarno all’interno di un palazzo decrepito); la protagonista incarna la stucchevole giornalista cinica, concentrata più sul pezzo che sulle relazioni umane; l’ex della ragazza non può che essere una figura viscida e volgare (ma come fanno ad avere avuto una storia con tali tipi è un mistero insondabile in migliaia di triangoli speculari a questo NdSS = Nota dello Spettatore Smaliziato). Nonostante sia sorretto da un apprezzabile sforzo di penetrare le psicologie dei personaggi, questo primo atto scivola pelosamente su tutti i meccanismi del thrilling, fino al primo (finto) spavento, quando Veronica (l’attrice Geena Davis) trova il direttore del giornale a casa sua che si fa una doccia. La tradizione viene rispettata aggiungendo poi la fugace inserzione nel disgusto con la scena del babbuino smembrato durante il primo teletrasbordo (lascio il termine con la b e la d seguendo pedissequamente l’ingeneroso doppiaggio italiano). Cronenberg provvede a ricordare allo spettatore che siamo pur sempre in un suo film inserendo, in maniera francamente inopportuna, alcune ostentate asserzioni sul rapporto uomo-carne, assenti nell’originale. Le avvisaglie di un esiziale deragliamento verso il qualunquismo artistico si acuiscono quando Seth Brundle, lo scienziato protagonista interpretato da un Jeff Goldblum in stato di grazia, decide di testare la sua invenzione dopo una sbornia cominciata per un futile accesso di gelosia.
Ma ecco che finalmente l’opera trova la sua chiave di volta, lascia perdere le fumisterie narrative e si concentra sull’arcinota fusione genetica tra l’uomo e la mosca. Il connubio fortunoso tra due esseri così diversi si rivela dapprima vincente per l’animale razionale. È come se Cronenberg decidesse beffardamente di depistare lo spettatore facendo leva sul suo mai sopito antropomorfismo, sulla presunta superiorità dell’uomo a cui anche il caso ha dato sempre una mano, preservandolo dapprima da condizioni naturali improbe e poi facendolo assurgere a dominatore dell’universo. L’inavvertita trasformazione genera inaspettate migliorie nel design genetico, come se anche questa vicenda fosse calata nell’astrale mondo dei fumetti in cui perfino le radiazioni regalano mirabolanti poteri invece di deformare, liquefare, annientare, uccidere. Seth Brundle è adesso in grado di compiere evoluzioni circensi aiutandosi con un semplice bastone, il suo fisico è tonico e scattante (il regista, astutamente, lo aveva prima nascosto dietro lisi abiti). Sembra di assistere alla classica rivincita del nerd, grazie all’aiuto dell’amica scienza. Ben presto una semplice bulimia zuccherosa dimostrerà il contrario. Se l’ascesa molecolare del nuovo essere è stata vertiginosa, la caduta sarà invece più morbosamente rallentata ma non per questo meno rovinosa. Nel frattempo il vigore sessuale di Seth trascende i limiti fisici della sua giovane fidanzata e quando egli non ne accetta la normalità genetica, comincia a vagare stordito nei lividi bassifondi della città, alla ricerca di qualcuna che possa rinascere come lui grazie alle capsule del teletrasbordo. Parafrasando una delle massime di Nietzsche che scriveva: «Solo un eccesso di forza è la dimostrazione della forza», lo scienziato prende atto della sua nuova potenza super-umana quando fa fuoriuscire l’osso dal polso a un povero debosciato che aveva accettato la sua sfida a braccio di ferro. Libero da lacci narrativi, Cronenberg in questo secondo atto può concentrarsi beatamente sui temi a lui più congeniali e lo fa con la solita raccapricciante nitidezza.
L’abbrutimento, (o l’insettamento, se mi lasciate passare il gusto del sapido, facile, stonato neologismo) è scandito da tappe sempre più degradanti, che umiliano lo spettatore che aveva osato sperare in una scontata (per lui) vittoria delle cellule umane. Come ammette oramai lo stesso protagonista: «Io sono una Brundle-mosca». In questa parte del film avvengono terribili mutazioni, che prendono la direzione ineluttabile della sconfitta genetica dell’uomo perfino di fronte a un’insulsa mosca. Prima i capelli, poi l’orecchio e infine anche i denti, inutili quando sei costretto a vomitare un acido (in realtà un miscuglio di latte e uova) sui cibi solidi per ingurgitarli. Non ci si può esimere dall’applaudire Geena Davis, attrice reale e personaggio, stoica in entrambe le figure quando continua ad abbracciare un essere che si decompone al solo tocco. Il trucco è per inciso visivamente sbalorditivo e otterrà un meritato Oscar. Anche il plot sterza bruscamente verso la violenza del dramma: la giornalista scopre di essere incinta di Seth. Subentra il pathos etico, caso perfetto da sottoporre agli anti-abortisti veementi alla Giuliano Ferrara: far nascere il nuovo essere o ucciderlo per paura della sua deformità? Cronenberg risolve il dilemma in maniera spiccia con una sequenza da antologia, in cui sceglie addirittura di mettere la faccia, come a rafforzare inoppugnabilmente la sua presa di posizione. Tormentata dai dubbi, Veronica fa un sogno che la porta direttamente al momento del concepimento. In sala-parto la situazione precipita velocemente e tra urla e profezie auto-avveratosi, il ginecologo (qui c’è il cammeo del regista) porta alla luce un’enorme larva grondante sangue.
Il terrore onirico genera la consapevolezza di una decisione non più rinviabile e quella notte stessa la donna deciderà di abortire. Adesso la storia precipita verso il cupo scioglimento finale. Seth ormai è “una mosca di 75 chili”, ma l’umanità, o almeno l’istinto di sopravvivenza connaturato alla specie, è ancora molto forte. Propone una teoria quantomeno pretestuosa, un concetto molto allargato di famiglia (lui, lei e il feto), presenti in un unico corpo-carne, in linea con le ossessioni cronenberghiane. È un concetto utopico imposto con la coercizione, impossibile da realizzare. Interviene allora nuovamente il caso che dà una direzione contraria alla volontà umana. La fusione avviene tra “Brundle-mosca” e la macchina, proprio tra i due simboli di una fisica assoggettata ad esperimenti che vogliono abbatterne i confini. La capsula sputa fuori una nuova entità, ontologicamente premonitrice del cyberpunk (“Tetsuo”, tanto per fare un nome), un groviglio di muscoli, ali, metallo, tessuti, che striscia sul pavimento e chiede di essere “terminato”. Il finale funziona da metafora simbolica: è la scienza dell’onnipotenza, con l’ultimo briciolo di quell’etica che appartiene solo all’uomo, che chiede di essere fermata nei suoi scavalcamenti di campo. Cronenberg fa premere il grilletto alla sua protagonista, e il film termina con questo ultimo botto, recidendo qualsiasi possibilità di redenzione o speranza.
La Mosca 2: Fastidioso Ronzio?
Reiterare e reificare qualunque successo, questo è lo slogan della New Hollywood. “The Fly 2” (titolo originale) non sfugge a questa logica e da subito esibisce con sfacciataggine le proprie intenzioni lucrative. Questo sequel è infatti girato dal truccatore del primo episodio, Chris Walas (tanto per poter attirare il pubblico con una frase ad effetto sul manifesto: “Diretto dal Premio Oscar…”) e utilizza perfino un paio di brevi scene scartate dal precedente. Il ronzio dell’insetto protagonista infastidisce sin dalla comparsa del logo della Fox. Lo spettatore viene con irruenza catapultato nella sala dove Veronica partorisce, senza che sia dato nessun chiarimento sul cambio di idea dall’iniziale decisione di abortire, un involucro gelatinoso di mosca al cui interno si nasconde un neonato, ripreso con una strana inquadratura dall’alto, come a presagire l’offerta votiva fatta al direttore della clinica che lo utilizzerà per i suoi esperimenti. L’inizio è potente, si spera che voglia allargare la sfera di criticità ai pericoli dell’eugenetica concentrandosi su questo “piccolo genio” che ha ereditato le cellule modificate del padre. Imprigionato a vivere dentro un laboratorio scientifico, Martin compendia tutte le caratteristiche dei precoci bambini protagonisti di pellicole trasversali negli anni Ottanta: è incredibilmente intelligente, tecnologico, curioso e in più non dorme mai e soffre di crescita accelerata. È trattato alla stregua di una cavia e il regista parteggia visibilmente per lui visto che insiste pateticamente sulle vessazioni psichiche e fisiche che subisce da scienziati-aguzzini mostrati soltanto nelle loro interazioni quasi automatizzate. Una cifra potremmo dire paternalistica, da film per ragazzi, con il tracciamento della linea tra buoni e cattivi volutamente marcata, come pretende il genere. La pellicola prosegue su questa scia e Martin, riuscendo ad ingannare facilmente il narcolettico custode, fugge dalla propria cella, arriva al settore 4, al quale era proibito l’accesso (topos per eccellenza del genere fantascientifico) e stringe amicizia con un cane, prigioniero come lui. Più che a una sicurezza narrativa, il regista ricorre con pavidità a una sicumera narrativa.
Impressiona, infatti, come si evince dal racconto del soggetto, come questo lungometraggio rappresenti uno dei milioni di episodi in cui la fabbrica Hollywood perpetui i suoi consolidati meccanismi affabulatori affidandosi esclusivamente a un ferreo mestiere. Se perfino un truccatore riesce a dirigere (il film è impeccabile da un punto di vista tecnico e probabilmente vede l’aiuto di un navigato aiuto-regista), non si vede all’orizzonte una cinematografia che possa scalfire la serialità di alto livello degli americani. Esemplifico: nella scena successiva Martin arriva nella sala dove stanno per teletrasbordare il suo amico cane. L’ingresso in inquadratura delle due, per l’onnisciente spettatore che ha visto il primo episodio, pericolose capsule è marcato da un dolly e dalla ridondanza delle musiche. È un elemento stilistico visto innumerevoli volte, l’originalità non viene nemmeno tentata ma non si può negare che questo spezzone non trasmetta un brivido. Nel frattempo Martin festeggia i suoi 5 anni e a causa della crescita accelerata di cui soffre, è già un bel ragazzone interpretato da Eric Stoltz. Qui l’aneddotica trans-filmica genera un divertente cortocircuito linguistico: l’attore avrebbe dovuto interpretare il primo episodio di “Ritorno al futuro” (ruolo poi andato notoriamente a Michael J. Fox) e la sua carriera avrebbe preso sicuramente un’altra piega. A parziale riscatto per aver mancato l’occasione di essere Martin McFly (il nome del personaggio del film di Zemeckis) che gli avrebbe regalato una fama planetaria, Hollywood scrive su misura per Stoltz la parte di Martin “The Fly”. Tornando alla storia, il compleanno sembra dare una svolta nella vita del giovane figlio di Seth Brundle: gli viene conferito un appartamento tutto suo, autonomo e senza video-sorveglianza, e soprattutto il compito di svelare il meccanismo di funzione delle capsule inventate dal padre, che finora avevano causato obbrobri genetici.
La parvenza di una raggiunta felicità aumenta con la conoscenza di Beth (interpretata dalla bella e simpatica Daphne Zuniga). Qui la pellicola scimmiotta le commedie sentimentali, sia dall’incontro tra i due, che avviene in un modo alquanto insolito, sia dalla loro frequentazione riassunta nel solito montaggio di siparietti simpatici. Arriva addirittura il momento di crisi, come da copione dovuto a un malinteso: Martin scopre che il cane da lui tanto amato, dopo il teletrasbordo si è trasformato in una creatura ripugnante e sofferente. Nonostante una produzione così commerciale il regista prende di petto il tema dell’eutanasia e lo risolve in un’unica scena-madre, molto drastica: Martin uccide tra le lacrime l’animale la cui vita ormai non ha più dignità. “The Fly 2” prosegue testardamente però nell’attraversamento di più generi, senza settorializzarsi in nessuno. Così ritorna presto il tema sentimentale con la banale scena di sesso e soltanto dopo 50 minuti compaiono i primi sintomi preoccupanti della trasformazione in mosca, con la comparsa delle prime escrescenze. La spiegazione è poco “scientifica” e molto “fanta”: adesso che Martin è maturo le cellule aberranti che fino a quel momento erano state dormienti, si sono risvegliate. In tutti quegli anni egli, in realtà, non era stato curato (gli iniettavano semplice acqua distillata, puro placebo) poiché c’era tutto l’interesse a che si trasformasse effettivamente in una mostruosa mosca. Il direttore della clinica mostra la sua maschera da speculatore farmaceutico, interessato ai proventi di una così sensazionale scoperta. La possibile critica alle multinazionali della salute rimane però appena adombrata, sussurrata. L’attenzione del film resta ancorata alle azioni del suo protagonista che riesce a trovare Beth e a fuggire con lei.
La degenerazione genetica di Martin è fulminea e finalmente il reparto effetti speciali può sbizzarrirsi nella propria nefanda competenza. Il lungometraggio a questo punto imbocca deciso verso la strada dell’horror e addirittura del gore. Dopo la cattura di Martin al laboratorio e la sua successiva trasformazione in una mosca gigantesca, “The Fly 2” gioca fino alla fine infatti con un altro stereotipo del genere: la situazione a scatola chiusa o l’assedio da parte del monstrum. Una dopo l’altra le guardie vengono corrose dal vomito dell’insetto con insistenza grandguignolesca sullo scioglimento degli arti. Ai due cattivi, in particolare, è riservata la morte più splatter. Al capo-sorvegliante viene fatta schiacciare la testa dall’ascensore mentre il direttore funge da scambio corporeo per la salvezza di Martin. Totalmente stonato il riferimento alla tematica padre-figlio tra Martin e il direttore della clinica, giustapposto ed esilissimo. Il lieto fine ha però la consistenza posticcia del trucco pre-digitale. Non tanto per l’assurdità della teoria che sottende alla cura genetica di Martin quanto per la pacchianeria e la radicalità del buonismo del film. Il contrappasso del cattivo è altrettanto se non più terribile della sua colpa. Lo spettatore liofilizzato plaude all’ennesima punizione barbara senza processo e senza tentativo di indagare le cause maggiori. Hollywood si fa portavoce della morale dell’America.