E fu presidente. Alla quarta votazione, come annunciato dal putto fiorentino all’inizio degli scrutini, e nel nome di Sergio Mattarella, come anticipato (oltre che dal reuccio stesso), anche, si parva licet, dalla ‘povna, rispettivamente: sabato (insieme allo Storico Saggio), domenica (a mamma ‘povna) e lunedì nella sala stampa (seconda solo a quella di Enrico Mentana, come sempre bravissimo) di Iome.
La ‘povna, da quando la candidatura elettorale ha intensificato la sua militanza, si è data come regola quella di diminuire i post politici (non perché pensi che non siano utili, ma perché lei è lunga, verbosa, analitica: e questo, almeno negli anni Zero, è antitesi di prassi, e lei tutto vorrebbe fuorché la fare la fine di Civati). Questa è una di quelle volte, però, in cui l’eccezione merita. Per una serie di motivi, personali e politici, che adesso passa, con puntiglio, a indagare.
Partiamo dall’ombelico. Avere – non “azzeccato”, come ha detto da Iome AnonimoSQ, ma – intuito la candidatura, e poi la sostanza, segna per sempre un hapax, un punto di non ritorno, nella sua vita privatissima. Perché, per la prima volta, la sua previsione politica, si scontra, come di consueto, con quella di Mr. Mifflin, e si fa vincente. E questo, al di là della oggettiva soddisfazione, che esiste, lascia spazio a una serie di considerazioni sullo spirito del tempo, esplicitamente generazionali. Piaccia o non piaccia, per riassumere in estrema sintesi, per la politica degli anni Zero, gli strumenti da pensiero forte, compiutamente novecenteschi, solidi, di Mr. Mifflin non sono più sufficienti a leggere (interamente) tutte le pieghe del reale.
Appartengono alla sfera privata anche un paio di ulteriori considerazioni, sociali e personalissime. Le prime riguardano il fatto che la ‘povna si rende conto di quanto, consustanzialmente alla sua essenza, lei si ritrovi animale politico. “Ognuno riconosce i suoi”, in questo, e negli ultimi giorni la ‘povna non ha potuto fare a meno di riflettere su quanto il suo pensiero su amici e/o conoscenti che ostentino verso la politica ironia, dichiarata incapacità, più o meno finta indifferenza risulti comunque manchevole e parziale. Allo stesso modo, la lascia basita la ignorantia di quegli stessi amici e/o conoscenti (ai quali aggiunge una buona parte dei colleghi, anche), così come la sostanziale tendenza di persone colte, o che si dichiarano informate (di politica) a sostenere impunemente – a fronte della necessità di tessere una pratica elettiva di istituzione, e non la lista dei desideri utopici – nomi dichiaratamente improponibili, dimostrando di non riuscire a comprendere la differenza minima tra le chiacchiere da bar e la militanza sostanziale. La seconda invece (e, tra chi legge qui, sarà soprattutto BibCan a capirla nel profondo) è che, comunque la si veda, lei è ben contenta di essere uscita, finalmente, dalle secche del 2006.
Ma se dal personale si passa al politico (ammesso che le due sfere possano essere distinte – per lei no – come ha ben detto), allora vorrebbe spendere sull’elezione due parole di analisi, così come le ha dette a Mr. Mifflin, a consumare la sua prima vittoria di vision generazionale.
Il nome di Mattarella, a lei sembra (se no non l’avrebbe indicato – come probabile), sia figlio di una serie di ragionamenti e contingenze. Appartengono ai primi la scelta della minoranza Pd di dare sponda a Sel per proporre una candidatura degna, volta a spezzare l’asse del Nazareno necessariamente; così come la consapevolezza che su di lui avesse speso parole positive in tempi non sospetti (la ‘povna, come si sa, ha la memoria lunga) Forza Italia; anche il suo essere cattolico (pur progressista) – dopo due presidenti che, a torto o a ragione, il Cencelli aveva ascritto in quota laica, ha contato (non così poco come si creda: Napolitano è passato anche perché il duo Cossiga-Scalfaro aveva scalfito la ritualità dell’alternanza) – ha avuto il suo bel peso, ovviamente (“bisognerà ben accontentare quell’anima catto-scoutista, che si crede di sinistra, nel governo” – ha fucilato Mr. Mifflin, che resta comunque sul pezzo) – specie in un governo presieduto da un ex-democristiano. Ma tutto questo non sarebbe bastato se due fatti contingenti, uno pregresso, uno in medias re, direttamente, non avessero orientato in una certa direzione il dibattito politico: vale a dire (in ordine inverso di importanza) l’insipienza dei Cinque Stelle a gestire una mano già vinta a scopa d’assi e il risultato delle elezioni in Grecia. E’ quest’ultimo evento, infatti, a forzare la mano al reuccio che – al bivio tra gestire il Nazareno o provare a non andare a una scissione interna – si trova costretto a una scelta. E sceglie (bene) di mantenere il partito unito internamente: perché è la vittoria di Tsipras si lega al passaggio di quorum, alle Europee, dell’omonima lista. In altre parole: questa volta, se si va allo strappo, la scissione arriva, e la sinistra Pd (unita a un redivivo Vendola, che nelle partite istituzionali è maestro) questa volta si prende voti ed elettori. I portatori di acqua si mettono in moto, vengono stilate liste: il nome di Prodi è ovviamente senhal per qualcos’altro (non a caso, ci crede solo Civati); Mattarella è il compromesso possibile, probabilmente l’unico. Più a destra di quanto piacerebbe a Vendola (ma il suo essere cattolico, viceversa, ovviamente, per statuto, non lo turba), ha la schiena sufficientemente dritta; in più c’è il passato antimafia e anti-andreottiano, e il suo essere siciliano ed ex-DC (una cosa che, è ovvio, come il futuro avrà ben modo di dimostrare presto, sarà preziosa con Alfano). Bersani (che in queste cose è abbastanza bravo, almeno quando non si parla di se stesso) lascia Civati a blaterare, e intatto tratta: riesce così a porre il veto su Giuliano Amato.
L’unico problema potrebbe venire, ora, dai Cinque Stelle. Perché la mossa di mettere Prodi, e anche Bersani, tra le Quirinarie, è di quelle potenzialmente dirompenti. Sfortunatamente, pur con tutti questi jolly in mano, non sapranno che farsene, e sacrificheranno sull’altare della sempiterna (e sempre più malintesa) purezza la possibilità di passare, comunque fosse andata, all’incasso di una partita insieme politica e istituzionale.
Si arriva a mercoledì. E Berlusconi entra in campo. Ed è qui che arriva, da parte del reuccio, la mossa del cavallo: nella forma, banalissima, di una figura retorica. Renzi, infatti, nel rispetto dell’accordo di trattativa, si limita (esattamente come fece con Letta) a un banale hysteron proteron. Allora, disse al compagno di partito #staisereno quando aveva già avuto (è evidente) altre e istituzionali garanzie di parere positivo alla staffetta. Questa volta si abbocca con Silvio per discutere insieme di candidature, così come promesso. Quello che omette di far notare è che – il metodo Grasso-Boldrini è lì, a fare da garanzia coi numeri – i voti ce li ha già, a prescindere (ecco la sicurezza sulla quarta chiama, da sempre: perché, fosse con Forza Italia, fosse con la maggioranza di Bersani, per capirsi, si trattava solo di decidere dove orientare la bussola, ma i conti erano già fatti, e sani). Lo scacco per Berlusconi si palesa da subito: in ogni caso, si noti bene. Se dice di sì, poiché la matematica non mente, a un certo punto sarà chiaro (perché Renzi sta bene attento a mandare a puttane la possibilità di rendere Berlusconi rilevante, votando per le prime tre volte scheda bianca) che i suoi voti non erano comunque dirimenti; se dice di no, si incarta lo stesso (che è poi, si è visto, come è andata). Il resto è melina: giusto per arrivare a oggi (e permettere a Mentana di godersi la diretta). I Cinque stelle (i grandi auto-sconfitti) potrebbero proporre Bersani e/o Prodi, pubblicamente, e mettere il reuccio in scacco, ma non ne hanno la visione politica e la forza (si veda alla voce: italiani che non sanno analizzare la realtà che li circonda, qui, ai primi punti della riflessione ‘povnica). Alfano e i suoi (complice un bell’editoriale della Stampa, che agisce come endorsement – ma lo avrebbero fatto lo stesso, non avevano scelta) non possono che accodarsi. Sabato nel primo pomeriggio, coi suoi 665 voti, Sergio Mattarella è il dodicesimo presidente della Repubblica Italiana.
Resta solo da capire chi ha vinto. Ovviamente, nel gioco del totoQuirinale, la ‘povna (che aspetta il suo premio con curiosità e interesse). Ma, al di là dell’ombelico, a lei viene da dire un po’ l’Italia tutta. E non solo perché Mattarella è – stante i dati di realtà (quelli coi quali, si è detto, si agisce la politica) – un nome più che degno (molto meglio di Casini, Veltroni, Rutelli, Amato, Severino, Finocchiaro – ovvio; ma anche di Prodi, e persino di Bersani, per motivi differenti, poiché non è mai bello che a essere garanzia istituzionale sia qualcuno che la storia ha già sconfitto); ma anche perché i primi atti del presidente (le dichiarazioni, e la visita alle fosse Ardeatine) sono nella direzione di consapevolezza, ma anche scelta, istituzionale.
Ha vinto la minoranza del Pd (anche se Civati dovrà pagar pegno – ché qui la tela è di Bersani, tutta); ha vinto (pur se di Pirro) Sel con Vendola. E ha vinto, ovviamente, il reuccio. Forse, pure a mani basse. Eppure, attenzione, tutto ha un prezzo. Per chi sa guardare la politica con occhi consapevoli, infatti, l’agire con Berlusconi rivela in tutta la sua forza la coazione alla mossa del cavallo: brillante, efficace, utile; soprattutto, però, se inaspettata. Da questo punto di vista, il putto di Firenze rivela invece una mancanza di originalità che dovrà essere tenuta presente – specie da chi, come la ‘povna, prova a fermarlo da sinistra. Perché se, per costruire la propria politica si è in grado di tessere sulla realtà una sola mossa (ed è la stessa di Letta, ma anche delle primarie e poi della segreteria, e prima ancora quella che portò alla candidatura in provincia), sarà solo questione di tempi: prima o poi, se gli avversari saranno in grado di farne tesoro, e controbattere, si resterà -di fronte a una società che sarà pure 2.0, ma è complessa – nudi, e prevedibili. E senza più sovrastrutture.
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