Matisse-La Danza-
Sono un patito della musica. Io vivo, studio e dormo accompagnato dalle fantasie dei grandi musicisti della storia: da Mozart a Bach, da Beethoven a Chopin, da Brahms a Mahler, sono sempre circondato da violini, oboi, timpani che mi aiutano a sognare, ad evadere da una realtà spesso ansiogena e carica di preoccupazioni e dolori. La musica allegra di Rossini mi regala una carica di energia, quella romantica di Beethoven mi stimola all’amore universale, ad un abbraccio globale che racchiuda tutti i miei simili, di ogni razza e costume, credenza o condizione sociale. Bach poi soddisfa appieno il mio bisogno di religiosità quando lo ascolto nelle grandi Basiliche dotate di organi a canna, che pare quasi vogliano dialogare col Cielo. Mi ha sempre impressionato invece ascoltare il “Bolero” di Ravel. Questa musica infinita, estenuante e ripetitiva, che scandisce il tempo come un pendolo antico, rievoca, nella mia mente, la celeberrima “Danza” di Matisse, con quelle figure irreali che sembrano fluttuare nel vuoto in un misterioso girotondo senza fine. Per questo ebbi un brivido di paura quando mi ritrovai a scendere le scale che portano verso le fontane di villa d’Este, accompagnato da quella musica che potenti altoparlanti diffondevano intorno. Avevo come l’impressione che non sarei più riuscito a risalire, ed il fragore delle fontane sembrava ritmare questa mia corsa verso il basso, in un graduale e continuo crescendo proprio come nella notissima stesura del compositore basco. Quando arrivai nei pressi della “Fontana dell’Organo”, udii la musica provenire, come ai tempi di Gregorio XIII, proprio dai flutti della fontana, mentre vedevo la figura papale contornata dalle anime di Matisse, tutte colorate di rosso, che gli danzavano intorno come in un concerto infernale. Le acque gareggiavano con i tamburi a ritmare la musica snervante e le mie gambe vacillavano mentre un baratro immenso si apriva sotto i miei piedi ed altre scale, altre fontane ed altri danzatori mi circondavano sempre più d’attorno costringendomi a ballare come in un furioso, satanico sabba. Una strega bruttissima mi afferrò le mani trafiggendomi le falangi con le unghie lunghissime e sporche di nero. Il suo naso adunco sfiorava le mie labbra e carezzava la mia barba con una protuberanza rosacea che allungava di un altro centimetro la sua proboscide aquilina. E la musica continuava a ritmo crescente mentre un gong sembrava comandare l’orchestra di far spazio al suono di un oboe che infatti cominciò a far sentire la sua voce quasi umana e tre xilofoni sostituivano, pur continuando nello stesso ritmo, l’antica sinfonia. Improvvisamente però il naso della strega si ridimensionò, divenne gradualmente un bel nasino mentre i suoi capelli divennero fluttuanti come onde di mare e due labbra sensuali e carnose si poggiarono sulle mie. Forme divine ed una pelle perlacea sostituivano le scaglie della strega che gradualmente scomparve alla mia vista per fare spazio ad una donna bellissima e sensuale. L’oboe suonava monotono e grave ed io scendevo, scendevo, senza più curarmi del ritorno alla realtà e le fontane suonavano tutte in coro quella musica che gradualmente divenne dolce, coinvolgente, appassionante. Ero inebriato, infervorato, acceso dalla bellezza prorompente di quella fata che si era sostituita alla strega e che mi trascinava in alto, superando le colonne d’acqua spumeggianti e vaporose, ricche di mille stille di vita odorose d’ambrosia. La fata vestiva di un tessuto rosa antico ed io intravvedevo, dalla trasparenza degli abiti, le sue morbide rotondità cui mi aggrappavo fremente e gioioso come un bambino alla madre, imitando il suo suggere impaziente, che in me però provocava ben altre sensazioni di estatico appagamento e totale sublimazione. Lei sorrideva irradiandomi molecole d’amore e tutto il mio essere fremeva mescolando la mia frenesia a quelle note incantate mentre la fata sembrava dirigere il concerto di quei fiati dai dolci suoni. Le fontane gareggiavano con me e con tutti gli orchestrali nel seguire le sue movenze eleganti e sensuali mentr’ella fluttuava nell’etere come a sfidare la gravità, che non si oppose alla sua levitazione. Poi ancora il gong e forti suoni di tamburi soverchiarono il suono dell’oboe, mentre i capelli della fata tornavano desolatamente bianchi e scaglie nerastre riapparsero sulla sua pelle eburnea e vellutata. Le creature di Matisse si moltiplicarono in un girotondo sempre più stretto intorno a me mentre vedevo sfumare il piacere di quell’avventura celestiale e sublime. Roteando gli occhi in ogni direzione, cercavo almeno i residui di quella creatura eterea, ma era ormai buio e, stremato dalla danza, deluso e disperato, mi accasciai al suolo così ignaro e confuso mentre sogno, realtà, fantasia si fondevano ancora con il ritmo di quella danza, che sembrava non voler mai finire. Infine volsi gli occhi al cielo quasi a voler chiedere un aiuto divino, ma vidi solo le stelle e, nelle loro costellazioni, colsi presto le sembianze degli eroi che esse evocavano. Vidi così Perseo e il suo cavallo alato: “Salvami, salvami, Pegaso, prendimi sulla tua groppa, scendi in questo baratro immenso dove la musica mi ha trascinato e portami via con te.” E Pegaso mi raggiunse planando con le sue bianche ali mentre i suoi zoccoli lucenti cercavano un appiglio fra i flutti della magica fontana, dove io annaspavo quasi privo di vita.. Finalmente la musica finì: saltai in groppa a Pegaso che cercò di levarsi in volo sforzandosi oltre ogni dire per sostenere il mio peso e quello della strega che cercava di avvinghiarsi a me suscitando ancora la mia ira e la mia grande inquietudine. Riuscii a svincolarmi con forza e solo allora la bella fatina potette raggiungermi ridandomi speranza e fiducia. L’abbracciai con forza, mentre il cavallo alato svettava finalmente verso il cielo lasciandosi dietro una spruzzatina d’acqua dorata. Volammo stretti in groppa al nobile destriero che ci condusse il alto, nel mondo incantato della fantasia, fino a sfiorare l’Orsa, Orione, la Cassiopea e poi dolcemente planò adagiandosi sull’erba fresca e odorosa della villa di Tivoli dove assistemmo, ancora avvinti in un abbraccio quasi esaustivo, ad una miracolosa metamorfosi. Pegaso si posò con le zampe posteriori sulla roccia sporgente di un laghetto incantato, spiegò le sue candide ali, emise un possente nitrito rivolto al cielo e si trasformò in una statua marmorea, che ancora oggi si può ammirare fra le rocce e la vegetazione che sovrasta la fontana dell’Ovato. Tutto taceva ormai intorno a me quando, quasi per incanto, cominciarono ad udirsi le note del “Valzer triste” di Sibelius. Avvinto ancora alla meravigliosa fata, cominciai a danzare guidato da quella musica coinvolgente e sconsolata. E mentre ruotavo completamente immerso nell’estasi della danza, la fata gradualmente si sfaldava cadendo dalle mie braccia sulla roccia che aumentava il suo volume tra il mio sgomento e la mia confusione. Levitai come se non avessi avuto corpo e vagai, vagai per chilometri alla velocità della luce, tra astri e nebulose, fino a ritrovare il mio vecchio corpo, che si agitava nel sonno cercando di fluttuare in un lenzuolo tutto aggrinzito, che sembrava avere preso le sembianze di un bianco destriero. Una voce di donna cercava di riportarmi alla realtà chiamandomi più volte ad alta voce e mentre il mio essere lasciava il mondo di Morfeo per tornare alla vita reale, ricordo che sussurrai ancora mezzo intontito: “dimmi prima se hai ancora le sembianze di fata, sennò fai ripartire Ravel, che mi conduca ancora nella fredda fontana.”