La nazione “indispensabile”? Gli Stati Uniti e la nuova National Security Strategy

Creato il 28 aprile 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Davide Borsani

L’anno appena trascorso ha mutato in profondità le priorità strategiche degli Stati Uniti. Il primo mandato di Barack Obama si era aperto nel 2009 con due necessità: il disimpegno militare dalla “guerra per scelta” irachena intrapresa da George W. Bush e il re-engagement verso l’Asia che avrebbe trasformato gli USA da Atlantic Power a Pacific Power. Il secondo mandato, iniziato nel 2013, si avvia oggi alla conclusione con il ritorno dell’America in Iraq per fronteggiare la minaccia dello Stato Islamico (IS) e, per dirla con Walter Russell Mead, con un rinnovato Pivot to Europe a fronte del dinamismo russo in Ucraina. Emblemi di questo cambiamento nell’orientamento strategico sono le due National Security Strategy (NSS) pubblicate dalla Casa Bianca nel 2010 e nel 2015. Quest’ultima, in particolare, non ha raccolto l’eco mediatica che avrebbe meritato, soprattutto qui in Italia, un Paese che, per la sua collocazione geografica, rappresenta per Washington uno snodo assai utile per la sua strategia nel Mediterraneo allargato.

A differenza di cinque anni fa, gli USA sono chiaramente usciti dalla fase più acuta della “grande crisi” che l’avevano travolti nell’anno dell’avvicendamento tra Bush junior e Obama. È questo il punto di partenza per comprendere la nuova grand strategy di Washington. Una nazione, quella americana, che «deve» («must») continuare a guidare il mondo. Come recita la NSS, infatti, «la crescente forza economica dell’America», il cui PIL oggi cresce ad un ritmo medio del 3%, è tornata a essere «il fondamento» della sicurezza nazionale e, anche grazie allo sviluppo delle tecniche di estrazione dello shale oil e gas, una pietra angolare dell’influenza statunitense nel mondo. In questo contesto, sono cinque le principali sfide che la NSS identifica per la sicurezza del Paese: al primo posto, «l’estremismo violento» a sua volta connesso con l’evoluzione della «minaccia terroristica» chiaramente di matrice islamica; un gradino sotto si trovano «la sicurezza cibernetica, l’aggressione della Russia, l’impatto accelerato del cambiamento climatico, e l’esplosione di malattie infettive», come è stato recentemente il caso di ebola.

L’urgenza di sconfiggere la “nuova” minaccia dell’IS, che si somma a quella più “datata” posta da al-Qaeda, è dunque in cima alle priorità strategiche statunitensi. È indubbio che il 2014 abbia visto il ritorno degli Stati Uniti in Iraq pur senza ricalcare le modalità perseguite dall’amministrazione Bush junior. Non solo gli Stati Uniti sono tornati tra il Tigri e l’Eufrate con la campagna aerea della “coalizione dei volonterosi” guidata proprio da Washington al fianco, tra gli altri, di rilevanti attori regionali allo scopo di «erodere e infine distruggere» le capacità dell’IS, ma anche con gli ‘stivali sulla sabbia’ nella forma di consiglieri e addestratori militari in sostegno delle Forze Armate irachene. Ed è, questo, un «approccio sostenibile» che la NSS afferma di voler continuare a perseguire nella lotta al terrorismo islamico. L’America, che certo non vuole essere «in guerra con l’Islam», «continuerà a fornire aiuto» militare e politico agli Stati e alle comunità «maggiormente vulnerabili» alla penetrazione della minaccia jihadista così da «sconfigger[la] a livello locale»: primo, «addestrando ed equipaggiando partner locali e fornendo [loro] sostegno operativo»; secondo, «favorendo una governance più esclusiva e responsabile» nelle aree colpite dalle organizzazioni terroristiche e coinvolgendo le potenze della regione.

È altresì indubbio che, di fronte all’attivismo della Russia nell’Est Europa, il secondo mandato di Obama abbia riportato concretamente gli Stati Uniti nel Vecchio Continente in termini strategici. Tra il 2014 e il 2015 Washington ha annunciato due piani, lo European Reassurance Initiative e lo European Infrastructure Consolidation, che hanno interrotto il processo di disimpegno dall’Europa. La rilevanza per Washington dell’Alleanza Atlantica, in questo quadro, ne è uscita incrementata. È dunque utile comparare il ruolo della NATO che emergeva dalla NSS 2010 con quello del 2015. Cinque anni fa, la Casa Bianca sottolineava la necessità di «rivitalizzare e riformare» la NATO per consentirle di affrontare «l’ampio spettro delle minacce del Ventunesimo secolo» con implicito riferimento alle operazioni oltremare. All’Europa, nelle migliore delle ipotesi, era volta una benevola disattenzione. La NSS del 2015 si è soffermata, invece, ampiamente sulla crisi ucraina e ha chiarito che il quadro della sicurezza dell’Europa, a differenza del 2010, è in forte mutamento e che la stabilità europea non può più essere data per scontata («taken for granted»), con le ovvie implicazioni strategiche in chiave di difesa collettiva a sostegno degli alleati. Un’Alleanza rafforzata significa una maggiore presenza degli Stati Uniti nel Vecchio Continente, come simboleggiato dall’operazione Atlantic Resolve ai confini orientali della NATO, la quale è appunto la principale dimostrazione del rinnovato impegno americano, a detta del sito dell’US Army in Europa, per «la pace e la stabilità della regione alla luce delle azioni illegali della Russia in Ucraina».

Il Pivot to Asia, però, non è stato cancellato dal Pivot to Europe. Due perni, questi, che paiono destinati alla convivenza nella grand strategy americana quanto meno fino alle elezioni presidenziali del 2016. La NSS afferma infatti di aver rinnovato – e di voler continuare a farlo – «le alleanze dall’Europa all’Asia» di fronte alla «aggressione russa» e all’ascesa cinese, e quindi equiparando di fatto i due teatri. Gli Stati Uniti non ritengono di poter fare a meno di giocare un ruolo di primo piano nelle dinamiche dell’Asia-Pacifico, soprattutto alla luce delle «rivendicazioni territoriali e marittime e delle provocazioni della Corea del Nord». Ed è per tali motivi che il ruolo di Washington «resterà essenziale nel delineare le dinamiche di lungo termine della regione e per rafforzarne la stabilità e la sicurezza, per facilitare il commercio e gli affari per mezzo di un sistema aperto e trasparente, e per garantire il rispetto dei diritti e delle libertà universali». Gli strumenti per raggiungere l’obiettivo sono sia bilaterali, come «la modernizzazione» delle alleanze storiche con Giappone, Corea del Sud e Filippine, sia multilaterali, ad esempio «rafforzando le istituzioni multilaterali della regione» (a partire dall’ASEAN). In questo senso, «gli Stati Uniti ben accolgono la crescita di una Cina stabile, pacifica e prospera» e «rifiutano l’inevitabilità del confronto».

La NSS del 2015, è la conclusione, intende fornire «una visione per rafforzare e sostenere la leadership americana in questo secolo che è ancora giovane» e la cui matrice, secondo molti studiosi, potrebbe essere cinese in contrapposizione al Novecento, solitamente identificato dalla comunità scientifica come “secolo americano”. La Casa Bianca rigetta però l’idea che il Ventunesimo secolo non possa essere una ripetizione del precedente visto che, a dire della NSS, l’attuale sistema internazionale, uscito dalla Seconda guerra mondiale, resta tutt’oggi la migliore delle soluzioni possibili per continuare «a servire sia l’America che il mondo». Ed è per tale ragione che, chiosa la NSS con i tipici toni del mito dell’eccezionalismo statunitense, «la leadership americana in questo secolo, come in quello passato, rimane indispensabile».

* Davide Borsani è OPI Research Fellow e Head area USA e Americhe

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Photo credit: Reuters/Kevin Lamarque

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