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La nebbia oltre la strage - Eppure alla fine Daesh perderà

Creato il 20 novembre 2015 da Tafanus

L'Espresso in edicola oggi raccoglie i pareri di molti esperti francesi sulla questione Isis. Come finirà? Questo articolo va letto con attenzione, perchè dice cose di assoluto buonsenso, spesso in contrasto col pensiero dominante. Noi siamo d'accordo su molti punti dell'articolo.

Di mio aggiungo un ricordo... La Milano degli anni di piombo ha vinto quando la gente ha smesso di aver paura di uscire dopo le otto di sera, ed ha ricominciato a vivere normalmente, a ricreare da "movida", a non vedere in ogni auto affiancata al semaforo un potenziale assassino armato di P38. Nel mondo il terrorismo non ha MAI vinto. Non hanno vinto i NAR, le BR, l'IRA... Il mondo civile vince quando smette di aver paura del terrorismo. Il terrorismo si nutre del terrore delle persone normali. Se una telefonata di un qualsiasi scalzacani basta a fermare due aerei, un treno, a svuotare uno stadio, il terrorismo ha già vinto. Dobbiamo riconquistare la capacità di avere il senso delle proporzioni: nel mondo c'è un miliardo e mezzo di musulmani, ma i banditi Daesh sono 40/50.000. Allora i musulmani normali ci dimostrino di avere le palle, e di riuscire ad emarginare, denunciare, spiare coloro che rappresentano lo 0,003% degli appartenenti alla loro religione. La vera rivoluzione contro il terrorismo islamico deve cominciare da loro. Tafanus

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Lacrime sui morti del Bataclan

La Francia si sta già rialzando, con il suo orgoglio di sempre. Ma sa che altro sangue scorrerà. E che per scacciare l'incubo ci vorranno anni. Forse decenni. E bombardare dal cielo non basta. Ai tempi di Bin Laden, il mondo arabo guardava ad Al Qaeda con simpatia. Oggi è diverso. E anche tra i musulmani sta crescendo una classe media stanca di guerra. L'opinione di un grande intellettuale francese (di Paolo Pellegrin - l'Espresso)
Sotto il peso di essere diventata, ancora di più, il simbolo universale dell'Occidente, Parigi si rialza per essere all'altezza delle aspettative e della sua storia. Sui social si rincorrono inviti che sono quasi ordini: «Uscite di casa». La casa è diventata, soprattutto nel weekend dopo Bataclan, l'ultima trincea, l'ultimo luogo in cui sentirsi sicuri dopo che erano stati violentati gli spazi pubblici: caffè, ristoranti, strade, teatro, stadio del calcio. Si misurano le differenze col gennaio di "Charlie Hebdo". Allora c'era stata una risposta immediata che aveva una valenza politica, pubblica, la grande manifestazione, i valori della libertà di stampa da difendere, l'orrore di toccare con mano dove può arrivare l'antisemitismo con l'assalto all'ipermercato kosher. Oggi i "citoyen" tutti, indiscriminatamente, si sono rivelati target e la reazione istintiva è stata intima, individuale. Come se i boulevard fossero ostili, i locali delle trappole, i luoghi dei grandi assembramenti una provocazione per i jihadisti.
Non poteva durare. I parigini hanno visto la loro città piegata e ci hanno messo poco a concludere che non ha senso, la metropoli, senza il sangue che le scorre nelle vene, la gioia di vivere, gli appuntamenti, la socialità. Hanno ripreso a scendere per strada convalescenti, ammaccati, ma in piedi. E con quella ferita sulla carta geografica, la mappa degli attentati (venerdì 13 novembre, 129 morti, 352 feriti), che taglia in verticale da nord a sud la riva destra della Senna, quasi ricalcando il gennaio, come se ci fosse stata, da parte dei basisti, la cattiveria aggiuntiva di infierire sulla stessa area di dolore. Ci si affeziona però alle proprie ferite, così come si ha una maggiore attenzione verso un figlio più debole. Meno gridata, meno spettacolare dell'altra volta, ma la processione per onorare i morti è incessante, persino più sentita perché l'identificazione è più facile e provoca empatia profonda: potevo esserci io a quel concerto, al tavolo di quel ristorante. Mentre non potevo essere ebreo o un vignettista di "Charlie Hebdo".
La prima volta, non in assoluto: la prima del terrore urbano ai tempi del sedicente Stato islamico, atterrisce ma può essere catalogata come una (relativa) sorpresa, ci si può affidare al caro slogan del "mai più". La seconda uccide l'illusione, annuncia la terza, la quarta... Autorizza la politica, fraternamente abbracciata per "Charlie", a rompere subito l'unità nazionale e a rinfacciare colpe, peccati di omissione, soprattutto se ci sono scadenze elettorali (le regionali a inizio dicembre) e sullo sfondo l'appuntamento delle presidenziali (2017) per cui si fanno i calcoli. I cadaveri per strada favoriscono Marine Le Pen, già in vetta ai sondaggi? Ridanno speranza a uno sfiatato François Hollande ora comandante in capo? Rilanciano le ambizioni di un Nicolas Sarkozy da subito critico nei confronti dell'Eliseo? Domande che si rincorrono nell'eterno sciovinismo francese di credersi ombelico del mondo. Mitigate però stavolta dalla necessità di pensare globale.
Nessuno rimprovera a Hollande la fuga in avanti sulla Siria, l'esporsi e l'esporre il Paese alle ritorsioni di Daesh (nome arabo dell'Is), non fosse altro perché erano largamente condivise dall'opinione pubblica, nella riedizione in salsa socialista di una grandeur che sta nel dna transalpino anche quando non è più corroborata dal peso specifico sullo scacchiere internazionale. Forse, implicitamente, se lo è rimproverato lo stesso presidente, nel suo discorso di lunedì 16 novembre a Camere riunite nella maestosa cornice di Versailles. Ha chiesto che l'Unione europea lo affianchi nella "guerra" e annunciato che renderà visita a Barack Obama e Vladimir Putin per costruire una coalizione in grado di annientare l'autoproclamato califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. Non ha mai pronunciato l'espressione tabù "truppe sul terreno" secondo molti analisti militari la via più rapida per annientare quell'entità totalitaria nel nome di Allah.
Del resto Obama aveva messo le mani avanti per negare il ritorno di soldati Usa nell'inospitale terra tra il Tigri e l'Eufrate. Stando ai consiglieri dello stesso Hollande la strategia, sebbene sibillinamente esposta e con molti omissis, è chiara. L'esercito "nostro" è quello dei peshmerga curdo-iracheni, da noi armato, rifornito e foraggiato. Oltre che appoggiato dall'alto dai bombardamenti aerei (saranno intensificati). La sinergia cielo-terra, dopo qualche problema iniziale, è stata raffinata e sta funzionando sempre meglio. Non a caso al Califfo è stata appena strappata la fondamentale Sinjar. Lo stesso schema, è la novità, sarà ora ripetuto coi curdi-siriani e altre formazioni anti-Daesh che, opportunamente addestrate, sarebbero in grado a breve di scatenare un'offensiva contro Raqqa, la capitale dello pseudo-Stato.
Dunque niente scarponi nel deserto nemmeno dei militari d'Europa. Hollande chiede (anche a noi italiani) l'aviazione per dividere i rischi: da Renzi ha ottenuto una risposta fumosa e dilatoria. Il ministro della Difesa francese Jean-Yves Le Drian, il più amato dai soldati tra quelli che si sono succeduti alla carica, ha chiesto e ottenuto da Bruxelles martedì 17 novembre l'applicazione dell'articolo 42.7 del Trattato dell'Unione Europea sulla solidarietà in caso di aggressione. È la prima volta che viene invocato ed ha un valore simbolico: questa è una guerra europea mentre gli americani si defilano sempre più dal Medio Oriente. Sugli effetti pratici c'è da dubitare. Su un sostegno convinto dei partner sono scettici persino all'hotel de Brienne la sede del dicastero. Come Renzi, anche gli altri leader del Vecchio Continente sono dei "bombardieri riluttanti". Ma ai francesi basterebbe l'impegno a sostenerli nella logistica, soprattutto a sostituirli nelle missioni in Centrafrica e Mali per permettere loro di spostare uomini e mezzi in Siria. Ne avranno bisogno. Al ministero fanno notare: «Finora abbiamo colpito in modo debole. Ora lo faremo in maniera molto più massiccia ed efficace». Ci vorrà tempo ma vorrebbero aprire, dal cielo, la strada per la riconquista di Mosul alle truppe dei peshmerga e dell'esercito iracheno ancora in formazione. «Sappiamo che non sono propriamente amici, ma vedremo di farli andare d'accordo».
MAI PIÙ NEL PANTANO - Si può vincere la guerra così? Forse, ma serve molto più tempo rispetto a un intervento diretto. E comunque pare non esserci alternativa, nemmeno dopo Parigi. Le democrazie non possono permettersi bare coperte con la bandiera nazionale, pena la fine del consenso. Hugues Portelli, professore di studi politici e senatore della destra sarkozysta: «È fuori di discussione l'invio di soldati. Useremo le forze armate dei Paesi limitrofi. Cercando nel contempo di troncare le incredibili complicità di cui Daesh dispone in Medio Oriente e non solo. Tra noi europei dobbiamo invece aumentare la cooperazione a livello di intelligence. Non può essere così poroso il confine col Belgio dove i fondamentalisti passano indisturbati. Infine dobbiamo rafforzare il sistema giudiziario dando certezza alle pene. Uno degli attentatori del 13 novembre era stato riconosciuto responsabile di otto reati e non si era fatto un giorno di prigione».

Nel ragionamento complessivo Portelli unisce due questioni comunicanti e diverse. Racchiuse dal duplice interrogativo: che fare in Siria? Che fare in casa? Torniamo al primo e all'ipotesi senza piano B di vincere con gli eserciti-taxi appoggiati dai nostri caccia. Al ministero della Difesa francese stimano che i combattenti del Califfo siano tra i 30 e i 40 mila, compresi i miliziani della brigata internazionale convenuti da ogni dove. Sotto il dominio dell'Is vivono circa 10 milioni di persone, centomila dei quali possono essere mobilitati in caso di emergenza e comunque non sono efficaci in battaglia come i fanatici superaddestrati. Non proprio una superpotenza dunque.

Jean Jacques Roche, direttore dell'Istituto di alti studi di difesa nazionale, uno dei più apprezzati analisti di questioni belliche, osserva: «Pesa il precedente del Golfo quando l'Occidente inviò 150 mila uomini e si ritrovò nel pantano. E allora c'era almeno un mandato delle Nazioni Unite che qui non è in vista. Soprattutto dopo l'esperienza libica, Cina e Russia non saranno mai d'accordo. Non è ancora chiaro, inoltre, quale sarebbe il mandato, la strategia per il dopo. Contro lo Stato islamico, a oggi, c'è una coalizione eterogenea di alleati alcuni dei quali ambigui come Arabia Saudita e Qatar che al terrorismo sunnita hanno spesso strizzato l'occhio».

La diplomazia si occupi dunque di queste incongruenze, della Turchia che attacca più i nostri partner curdi del Califfato, al quale permette di commerciare il petrolio sul mercato nero per gonfiare le casse e pagare i miliziani. Tempi comunque medio-lunghi: e nel frattempo lo Stato islamico continuerà a essere la patria di riferimento per cui immolarsi agli occhi dei jihadisti europei. Roche ascolta e mette le mani avanti: «Capisco che possa sembrare molto cinico ciò che dirò, ma bisogna pur dire la verità». Che sarebbe? «Adesso c'è un'emozione molto forte ed è comprensibile. Però io da studioso devo analizzare freddamente i dati che dicono questo: il numero di vittime per terrorismo in Europa non è superiore a quello degli anni Settanta. Noi francesi abbiamo già avuto esperienza in passato sia con la guerra d'Algeria sia con il Gruppo Islamico Armato algerino (Gia) degli anni Novanta. È vero che nel 2015 tra "Charlie" e il 13 novembre c'è stata un'impennata, ma non tale da mutare le statistiche. E non è vero che le nostre intelligence non funzionano: solo nel 2015 hanno sventato 152 attacchi». Professore, sarà statistica ma è ben poco rassicurante e non consolerà i parenti delle vittime del teatro Bataclan... «Certo è stato terribile. Ma non esiste il rischio zero. E si va avanti, come hanno fatto i madrileni dopo i 200 morti della stazione di Atocha, nel 2004».
UNA COMUNITÀ COMPATTA - Il problema per ora è "come" andare avanti. Il realismo cinico di Roche è estremo. Con formule diverse e meno urticanti nessuna autorità pubblica (compreso il premier Manuel Valls) può promettere il "mai più". I parigini lo hanno capito e corrono ai ripari. Olivier Duran, il portavoce del sindacato delle imprese di sicurezza, valuta un più 30 per cento di richieste di guardie da parte di imprese e associazioni che non rientrano nel piano di protezione varato dal governo. Hollande chiede di cambiare la Costituzione, allungare lo Stato di emergenza di tre mesi e promette l'assunzione di cinquemila agenti. E il deputato della destra Eric Ciotti gli fa notare almeno l'incongruenza tra le dichiarazioni di principio e il fatto che il budget sicurezza per il 2016 è stato aumentato di un misero 0,96 per cento, in cifra assoluta 117 milioni di euro.

Se il rischio zero non esiste, compito dello Stato è tuttavia quello di mettere in campo tutti gli sforzi possibili per abbassare al massimo il pericolo. E un forte contributo ci si aspetta da una comunità musulmana moderata (cinque milioni di persone) stavolta compatta nel condannare la carneficina senza se e senza ma, a differenza del dopo "Charlie", quando in taluni resisteva l'alibi dell'offesa al Profeta. Nella rabbia immediata alcune moschee sono state devastate, ma nel complesso in Francia non è scattata alcuna caccia all'islamico e i rappresentanti di un "Movimento sunnita mondiale" possono marciare in place de la République a fianco dei parigini con lo slogan: «Bisogna salvare ogni vita umana».
RICOMINCIARE DALLE PERIFERIE - Uno scenario di scontri interfrancesi era proprio quello più temuto da Jean Pierre Filiu, professore a Sciences Po e tra i maggiori esperti internazionali dell'Islam: «Quello che vogliono gli autori degli attentati sono le rappresaglie, che si uccidano i musulmani per le strade. Vogliono la guerra civile in Francia». E sarebbe un'apocalisse solo minore all'altra pure temuta dall'esperto: «Soprattutto non mandiamo truppe. Sarebbe la replica di Bush 2003 e con gli stessi effetti nefasti. Intanto non sarebbe efficace e inoltre cadremmo nel tranello. Il secondo scopo del Califfato è di attirarci lì per la resa dei conti». Il Medio Oriente alimenta l'odio in banlieue dove, secondo lo storico Andrew Hussey esattamente dieci anni fa ci fu il preludio di oggi con la rivolta che le devastò. Spiega Roche che quelle periferie «esistevano anche negli anni Settanta-Ottanta, abitate da gente pacifica poi sostituita dagli attuali inquilini che si sono organizzati in modo "communitario" e hanno cominciato a radicalizzarsi». Da lì deve partire qualunque progetto di riconciliazione tra vecchi e nuovi francesi.
Quanto al resto, il 13 novembre è stato la cartina di tornasole di una Francia che voleva tornare iperpotenza, come durante la grandeur coloniale, e non ce la fa a sostenere il peso di tanta responsabilità. In Libia (Sarkozy), Mali (Hollande), Siria (ancora Hollande) il comandante in capo ha avuto una tattica del breve periodo, del dividendo di prestigio iniziale. Poi è calata la nebbia.
Ci diciamo tutto o quasi. Da quando vado in quel negozietto di alimentari tunisino, a tarda ora, a prendere il pacchetto del caffè che mi è finito o la bottiglia di scotch che mi aiuterà a portare a termine l'articolo, siamo diventati amici, e sabato sera era un vulcano in eruzione. «Quei tipi, quei bastardi, quei coglioni, quegli assassini che ci coprono di vergogna, li farei a pezzi! Ah, parola mia, se Hollande volesse ristabilire la tortura e la pena di morte, io lo appoggerei!». I figli approvano con lo sguardo. Tutte le generazioni d'accordo, in questa famiglia conservatrice e religiosa che alle elezioni tunisine del 2011 aveva votato per gli islamisti di al-Nahda e adesso vuole "ammazzarli tutti e subito". Una bella differenza dal gennaio scorso.
Quando c'è stato l'attentato a "Charlie Hebdo", pochissimi musulmani di Francia avevano approvato gli omicidi ma… non lo dicevano, o comunque lo dicevano di rado. "Charlie" aveva fatto la caricatura del Profeta, insultato la fede, sbeffeggiato l'Islam. Probabilmente i suoi vignettisti non meritavano la morte, no, ma di qui a dire "Je suis Charlie", di qui a condannare i loro assassini, c'era un passo che molti non si sentivano di fare perché - come si leggeva sui giornali e si sentiva all'uscita dei licei dei sobborghi - la religione è sacra.

Da venerdì, su Internet non si vede niente del genere. Lo Stade de France, il decimo e undicesimo arrondissement di Parigi, il mitico Bataclan dove suonano i gruppi più moderni, si possono anche non frequentare. Troppo cari, troppo lontani, troppo parigini per un ragazzino dei sobborghi, ma non per questo fanno parte dei luoghi di cui i profiler scartano i giovani arabi. Al contrario, sono luoghi di aggregazione mista, dove si mescolano giovani di ogni estrazione, tutti vestiti allo stesso modo e tutti che condividono lo spirito del tempo.
Gli attentatori di venerdì se la sono presa molto esplicitamente con questi "luoghi di depravazione", mescolando la loro conoscenza di Parigi con la missione di uccidere, e questo no, non è più accettabile per i musulmani di Francia che per il resto della popolazione. Questo è ripugnante per tutti, musulmani compresi, e quei bersagli troppo ampi, troppo giovani, troppo innocenti di tutto, troppo rappresentativi di una Francia mista dove l'odio razziale è, di fatto, profondamente assente; è un grosso errore da parte di Daesh.
La Francia ha paura, certo. Non c'è bisogno di essere esperti di terrorismo o di relazioni internazionali per sapere che potrebbero seguire altri attentati e che quelli di venerdì sarebbero potuti essere dieci volte peggio se quello allo Stade de France non fosse andato storto. Impossibile, in queste condizioni, ritrovare la spensieratezza di un paese dove la sicurezza tra i tavolini all'aperto dei caffè era data per scontata come l'acqua corrente. La Francia è segnata. Anche nelle terre dell'Islam la gente è sconvolta per la sua ferita, ma questi attentati significano che il jihadismo potrebbe essere in fase ascendente e il pericolo starebbe aumentando?
La risposta è no. Al di là dell'orrore e dello sgomento del momento, per poco che si riesca a salire di quota e guardare oltre, la realtà è che il jihadismo non può andare da nessuna parte se non contro un muro.
DAI "FRATELLI" A OSAMA - Niente fraintendimenti, però! Ancora per un po', e certo troppo a lungo, continuerà a reclutare, a colpire e a uccidere. La sua morte non è in programma per domani. Ma risaliamo indietro negli anni. L'islamismo nasce all'inizio degli anni Trenta con la creazione dei Fratelli Musulmani in Egitto, un movimento il cui successo folgorante si sarebbe presto diffuso in tutto il Medio Oriente, allora dominato dalle potenze coloniali. Per i suoi promotori, lo scopo non era certo di uccidere tutti e dichiarare guerra all'Occidente, bensì di riaffermare l'identità delle nazioni arabe e di rafforzarne i legami nella religione, la loro identità comune.
I Fratelli non volevano saperne del comunismo, del socialismo o del liberalismo e di nessuna di quelle ideologie occidentali. Volevano ritemprare lo spirito del mondo arabo nell'Islam per restituirgli la forza e lo splendore dei primi secoli musulmani. Ed è così che sono diventati la maggiore forza politica del Medio Oriente, perseguitati da tutte le dittature arabe, prosovietiche o proamericane, e hanno beneficiato sia dello sradicamento dei democratici e dei comunisti da parte dei governi al potere, sia dell'aura che gli conferiva la repressione di cui erano oggetto. Il movimento dei Fratelli musulmani sarebbe potuto restare così com'era alla nascita, religioso e lontano dalla violenza, se i sovietici non avessero invaso l'Afghanistan e se gli americani non avessero allora deciso di opporgli delle brigate musulmane reclutate in tutto il mondo arabo con le finanze dei sauditi.
Battuta l'Urss, i combattenti sono rientrati nei loro paesi, ebbri per la vittoria e convinti che a vincere "il piccolo Satana" fosse stata la "vera fede" di cui avevano portato lo stendardo e ben decisi a rovesciare ora i regimi arabi "corrotti" e "il grande Satana", cioè gli Stati Uniti. Arrivarono Bin Laden, al Qaeda e l'11 settembre. Arrivò l'apogeo di quello che oggi chiamiamo "islamismo" perché l'abbattimento delle Torri gemelle aveva profondamente affascinato tutta una parte del mondo arabo. Era la rivincita su otto secoli di eclissi, un'anticipazione della rinascita islamica e dell'ascesa di una multinazionale terrorista la cui impresa ideologica era paragonabile, per vastità, a quella avuta dal comunismo, ma al Qaeda ha fallito. Al Qaeda è stata vinta perché ha suscitato, contro di sé, la più ampia cooperazione tra servizi segreti della storia. Al Qaeda è stata seppellita con Bin Laden, anche se in realtà la sua morte ha preceduto quella del suo fondatore perché la follia delle reclute le aveva spinte a fare più vittime tra i musulmani "apostati" o tiepidi che tra i "giudeo-cristiani".
L'INIZIO DEL DECLINO - Il mondo arabo ci ha messo qualche anno a ripudiare la follia sanguinaria di al Qaeda. Le rivoluzioni arabe del 2011 sono state democratiche e per niente islamiste. Quelli tra gli islamisti che hanno portato al potere erano i Fratelli di una volta, dei conservatori reazionari e non dei jihadisti, sempre più influenzati, oltretutto, dalla strategia democratica e dal successo dei cugini turchi. Si stava voltando pagina ma, per contrastare l'insurrezione democratica che lo minacciava, nell'estate del 2011 Bashar al-Assad ha pensato bene di scarcerare i più fanatici tra gli islamisti siriani. E il calcolo era giusto. Appena usciti di prigione, quegli uomini, cui l'esercito siriano lasciava completa libertà d'azione, si sono scagliati contro l'insurrezione, contro quei miscredenti, contro quegli apostati sostenuti dai "crociati" occidentali. Peggio ancora, si sono velocemente alleati con i vecchi ufficiali di Saddam Hussein, sunniti come loro e cacciati via dall'esercito, in quanto sunniti, dalla maggioranza sciita che l'intervento americano aveva messo al comando a Baghdad. Nacque così lo "Stato islamico dell'Iraq e del Levante", Daesh, la cui ambizione è di creare un nuovo Stato sunnita a cavallo tra l'Iraq e la Siria e che recluta nelle periferie europee, e soprattutto francesi, dei giovani smarriti alla ricerca di una ragione di vita per farne dei kamikaze. Daesh si è diffuso in Libia, nel Sahel e fino al Sud-Est asiatico. Con una crudeltà ancora più dissennata di Al Qaeda, Daesh è una minaccia spaventosa ma - oltre a non aver mai affascinato il mondo arabo quanto Al Qaeda, oltre ad avere ambizioni non messianiche ma territoriali, oltre al fatto che il mondo arabo è stanco della violenza jihadista e che le sue classi medie aspirano a uno Stato di diritto - ormai ha raggiunto i suoi limiti.
VERSO LA RESA DEI CONTI - Con il sostegno da terra dei combattenti curdi, gli aerei della coalizione arabo-occidentale di cui ha suscitato la formazione ormai gli provocano perdite significative. Non solo farà sempre più fatica a conservare le posizioni militari, ma gli attentati di Parigi gli si stanno ritorcendo contro. Perpetrati alla vigilia di due grandi riunioni internazionali, gli attentati hanno fatto precipitare il riavvicinamento sulla questione siriana accennato dalle grandi potenze in quest'ultimo mese. Non è più impossibile che si finisca per raggiungere un compromesso internazionale e regionale sulla Siria e, se questo si avverasse, presto Daesh potrebbe ritrovarsi solo davanti al resto del mondo. Espansione e lento declino, la storia di Daesh ripete quella di al Qaeda mentre la massa dei musulmani d'Europa continua a europeizzarsi, a integrarsi in un mondo che, di generazione in generazione, come per tutti gli immigrati di tutte le epoche, diventa sempre più il loro, lontano dalle convulsioni dei mondi arabi. Tolta la tortura - e non è detto… - la reazione del negoziante tunisino è quella della Francia, della nazione a cui appartengono i suoi figli.


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