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La (non) egemonia cinese.

Creato il 30 maggio 2013 da Basil7

Discutendo del recente articolo sulle politiche di containment statunitense nei confronti della Cina, mi è stato chiesto se a parer mio la Repubblica Popolare diverrà entro la metà del secolo la potenza egemone del mondo. Rispondo subito: stante le tendenze che adesso possiamo osservare, io credo di no. Il fatto che il cuore della produzione mondiale stia tornando in Asia non deve stupirci, poiché si tratta di una dinamica storica già conosciuta. L’Occidente ha conquistato il primato economico solo tra il Seicento e l’Ottocento, strappandolo ai territori asiatici, ma già nell’ultimo quarto del Novecento si è cominciato ad assistere a fenomeni che indicavano linee poderose di sviluppo (Castronovo ha parlato a ragione di «un passato che ritorna»).

Si può anzi sostenere, entrando nella specificità del caso cinese, che la Repubblica Popolare stia ancora continuando lungo la strada avviata da Deng Xiaoping tra il 1978 e il 1992, sia economicamente (le grandi riforme), sia militarmente (l’ammodernamento delle Forze Armate, compresa la costruzione della flotta oceanica), sia in politica estera (il non-confronto e il “basso profilo”). Inoltre, quando si parla di Asia, non ci si riferisce a un blocco monolitico, bensì a un complesso sistema di equilibri tra potenze: Cina, Corea del Nord e del Sud, Giappone, India, Indonesia, Vietnam sono attori con proprie politiche e pesi specifici su scale diverse. Partiamo da un presupposto: i Paesi asiatici sono ben disposti a mantenere la cooperazione con Washington per controbilanciare l’influenza di Pechino.

Tuttavia, se da un lato un eccessivo containment statunitense può condurre all’allarmismo cinese, dall’altro lato la rigidità della Cina può a sua volta intimorire i vicini. Il riferimento non è soltanto alle esibizioni “muscolari” nel Mar Cinese, ma anche allo stile diplomatico: i rapporti con Giappone e India non possono essere condotti allo stesso modo di quelli con la Tanzania o l’Etiopia, poiché la penetrazione commerciale non è altrettanto semplice, né richiesta. Occorrerebbe una strategia di soft power più persuasiva e specifica. Paradossalmente, i tentativi cinesi di apertura negli ultimi anni hanno causato un peggioramento dei rapporti con i Paesi asiatici, proprio perché, soprattutto a Giappone e Vietnam, l’approccio di Pechino non è parso convincente. E il caso delle Isole Senkaku/Diaoyutai è emblematico di quanto sia ampio il rischio che le reciproche rigidità alimentino i nazionalismi – e viceversa – rendendo reale l’eventualità di un conflitto che nessuno a oggi può escludere con certezza.

Tra quindici o venti anni, res stantibus, l’economia cinese supererà quella statunitense, ma questo non significa che la Repubblica Popolare sarà il Paese egemone, né che si vada incontro necessariamente a un nuovo sistema bipolare. Durante la Guerra Fredda, i contatti commerciali tra USA e URSS erano minimi, ma lo stesso non si può dire per quelli tra Washington e Pechino, men che mai a livello turistico e sociale! Per di più, esiste una molteplicità di attori che non resteranno immobili, ampliando anzi la complessità delle relazioni: basti pensare alla Russia, all’India e al Brasile, i quali assolutamente non saranno passivi. Addirittura, è più probabile, a parer mio, che una crisi sistemica politico-militare sia scatenata da un attore quale Mosca, Giacarta o Tokyo che da Pechino. Resta comunque il fatto che la Cina al momento non voglia l’egemonia mondiale, mantenendo in questo senso la rotta tracciata da Deng Xiaoping: le priorità, infatti, sono la difesa dell’unità, la modernizzazione del Paese e l’incremento della ricchezza attraverso il modello dell’economia socialista cinese di mercato, che Castronovo ha definito «capitalcomunista».

Oltretutto, non dimentichiamoci che con riferimento alla Cina si debba parlare di un regime (in senso politologico) peculiare, che qualcuno definisce “via democratica cinese”, qualcun altro “dittatura”. Personalmente propendo per la seconda definizione, pur avendo avuto prova che, talvolta, i primi a non interessarsi all’argomento siano proprio i cinesi stessi, disposti a mantenere un “basso profilo” sui diritti fintanto che l’economia è in crescita.

Per riprendere il filo del discorso, il Partito Comunista Cinese è consapevole che l’aumento della ricchezza e l’ampliamento del raggio d’azione politico e militare potrebbero condurre a maggiori istanze interne di partecipazione politica e alla contestazione della classe dirigente (anche a livello etnico contro gli Han). Pertanto, per diventare una potenza egemone la Cina deve innanzitutto decidere di esserlo, quindi superare il blocco sistemico regionale asiatico e quello sistemico internazionale con gli altri attori in affermazione, infine confrontarsi con la questione democratica, poiché, a differenza della Guerra Fredda, le reti e l’accesso all’informazione sono ormai inarrestabili.

Beniamino Franceschini

La (non) egemonia cinese.



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