L’autore del Secolo breve, Eric Hobsbawm, ha avuto una lunga vita: è morto ieri mattina in un ospedale di Londra all’età di 95 anni. Era nato ad Alessandria d’Egitto nell’anno cruciale della prima guerra mondiale: il 1917. Nato da genitori ebrei di origini austriache – Leopold Percy Obstbaum e Nelly Grün – visse la fanciullezza tra Vienna e Berlino, eppure la sua lingua madre fu l’inglese perché in famiglia si parlava la lingua di Shakespeare. Però, all’età di quattordici anni divenne orfano di entrambi i genitori e, insieme con la sorella Nancy, fu adottato dalla zia materna Gretl e dallo zio paterno Sidney e la nuova famiglia si trasferì a Londra. Il giovane Hobsbawm – il cognome, diverso da quello paterno, si spiega con la storpiatura che ne fu fatta dall’amministrazione coloniale britannica – proseguì gli studi universitari presso il King’s College di Cambridge, dove fu ammesso nell’esclusivo circolo intellettuale degli Apostoli e conseguì il proprio dottorato grazie a una tesi sulla Fabian Society. Durante la seconda guerra mondiale prestò servizio nel genio militare britannico e nei Corpi d’Educazione Militare Reali. Nel 1947 ottenne l’incarico di lettore presso il Birkbeck College di Londra. Conosceva molte lingue e le parlava correttamente: oltre alla madrelingua inglese, il tedesco, lo spagnolo, il francese, l’italiano e se la cavava con l’olandese, il catalano e il portoghese. Ma tutte queste notizie non spiegano perché Eric Hobsbawn è considerato un grande storico e la notizia della sua morte abbia fatto nello spazio di un mattino il giro del mondo.
Il suo nome è legato indissolubilmente al suo libro più noto: Il Secolo breve, appunto. Un testo ponderoso edito in Italia da Rizzoli, come dalla stessa casa editrice milanese è stata pubblicata anche la sua bella autobiografia Anni interessanti, mentre altri pur importanti studi sono stati editi da Einaudi come i tre titoli: I ribelli, I banditi, I rivoluzionari. Dunque, se è vero che per parlare bene di un uomo – ossia per parlarne con cognizione di causa – è necessario parlare della sua opera, qui converrà parlare del Secolo breve. Perché breve? Perché la periodizzazione indicata e motivata dallo storico britannico è compresa tra il 1914 e il 1991, quindi lo scoppio della Grande guerra e la fine dell’Unione Sovietica. Nella prefazione del volume lo storico cita il poeta inglese Eliot sulle fini del mondo: «Per il poeta Eliot: non con il rumore di un’esplosione, ma con un fastidioso piagnisteo. Il Secolo breve – aggiunge Hobsbawn – è finito in tutt’e due i modi».
Eppure, la brevità temporale o, meglio, cronologica del XX secolo non va d’accordo con la sua intensità e i suoi drammi. Una volta, citando proprio il titolo del fortunato libro dello storico inglese, Vittorio Foa mi disse: «Altro che secolo breve. Il Novecento è un secolo sterminato, non finisce mai e io invece non vedo l’ora che finisca. Non ne posso più». Aveva ragione perché il “secolo sterminato” è stato anche il “secolo sterminatore”. Non che gli altri secoli non abbiano conosciuto tragedie e orrori, ma il Novecento ha teorizzato e praticato lo sterminio di massa in cui l’umanità è stata annientata in quanto umanità. Un orrore, come ebbe a dire Isaiah Berlin – anch’egli ebreo approdato a Londra e diventato Sir Isaiah -, che non era stato mai concepito nella storia.
Ma proprio perché tragica e orrenda, la storia del XX secolo va raccontata. È una storia, peraltro, che va divisa almeno in due fasi o volti: quella dei regimi totalitari e degli orrori dei lager e dei gulag, e quella del grande progresso tecnico e dell’espansione del benessere. Insomma, un secolo con un doppio volto che rende ancora più problematica la definizione di “secolo breve”. Di questa duplicità proprio Eric Hobsbawm dà conto dividendo la sua opera in tre parti: la prima è definita “L’età della catastrofe” e va dal 1914 al 1945. Si tratta di un periodo simile ma di diversa natura e spirito alla Guerra dei Trent’anni che insanguinò l’Europa dal 1618 al 1648: perché, in fondo, quelle che si chiamano guerra mondiali furono guerre europee che in Europa si svolsero, che cambiarono profondamente il “vecchio continente”, con il crollo dei suoi Imperi e del suo mondo, e, soprattutto – e soprattutto il secondo conflitto – furono nuove guerre di religione.
La seconda parte è intitolata “L’età dell’oro” e va dal 1946 al 1973: il mondo cresce e si trasforma e progredisce nella libertà ma anche sotto la spinta fondamentale delle grandi conquiste delle scienze e della tecnologia. Il mondo è diviso in “blocchi”: da una parte c’è il mondo libero e dall’altra il sistema sovietico totalitario, ma lo storico tende a mettere sullo stesso piano i due “sistemi” e, in sostanza, è più che indulgente nei confronti dell’Unione Sovietica. La terza parte è intitolata “La Frana” e giunge alla caduta del Muro di Berlino e alla fine del sistema sovietico, caro allo storico marxista. Ecco, perché Eric Hobsbawm è stato uno storico marxista – fu comunista ortodosso almeno fino al 1956 – ma uno storico marxista onesto che ha dichiarato al lettore la sua scelta di campo. Proprio nella prefazione al volume Hobsbawm avverte il lettore che la ricostruzione della storia “secolare” e il giudizio su idee politiche non sempre è oggettivo ossia non sempre è spassionato. Per dirla tutta, l’autore del Secolo breve, pur lontano da dogmatismi di stampo stalinista, considerò con qualcosa di più di un occhio di riguardo il totalitarismo sovietico. Cosa che, nonostante l’autorevolezza dello storico inglese e il suo rigore tanto scientifico quanto stilistico – tradizioni queste ultime che, fatta qualche eccezione particolarmente incline alla banalizzazione, appartengono alla storiografica britannica – è non solo discutibile ma anche inaccettabile, a meno che non si voglia – cosa fatta proprio da Hobsbawm – riscrivere la storia del XX secolo: il secolo delle idee assassine.
Il fatto è che Eric Hobsbawm dava una lettura più che positiva della rivoluzione d’Ottobre e fatto il primo passo non poteva che essere conseguente con se stesso e così se nella rivoluzione bolscevica – che invece inorridì proprio Berlin che vi capitò nel mezzo, ne vide all’opera la violenza e per fortuna riuscì a scappare con la famiglia – vedeva un incentivo per gli Stati europei e occidentali affinché si aprissero bene e meglio verso le classi lavoratrici, allo stesso modo nel sistema sovietico che della rivoluzione di Lenin era figlio non poteva che vedere una speranza per l’umanità. Non è casuale che Il Secolo breve finisca proprio con un sentito sentimento di nostalgia per il mondo stabile e ordinato di un tempo che ha lasciato il campo a un mondo in disordine che navigando in mare aperto sembra aver smarrito anche la bussola per l’orientamento. Ed Eric Hobsbawm quella bussola crede di poterla recuperare proprio in una rivalutazione delle idee economiche e politiche della dottrina marxista. Come se – ed è un paradosso che andrebbe affrontato e che, evidentemente, trova la sua ragion d’essere proprio nella lettura un po’ “velata” che lo storico dà del “secolo breve” – il Novecento non fosse stato la smentita più clamorosa delle due idee che affondavano le loro origini nel secolo decimonono: il nazionalismo e il socialismo nelle sue varie interpretazioni e applicazioni.
Chiudendo il suo libro, lo storico dice che la ragione del disordine attuale e della inanità a dargli una forma accettabile non sta solo nella profondità e complessità delle crisi mondiali, ma anche nel fallimento apparente di tutti i programmi, vecchi e nuovi, per gestire o migliorare la condizione del genere umano. Ma questa è una storia piuttosto vecchia.
tratto da Liberalquotidiano.it del 2 ottobre 2012