Uno dei decani del giornalismo statunitense, nonché celebre e celebrato “muckracker”, Lincoln Steffens, faceva notare come avrebbe potuto creare un’emergenza sociale, una psicosi collettiva, partendo dai normali fatti di cronaca che avvenivano nel quotidiano, amplificandoli attraverso il mezzo mediatico e la sua retorica. Questo perché il cronista è il “medium” tra le masse e ciò che succede e per questo le masse sviluppano nei suoi confronti un rapporto di tipo fideistico. Da tale assunto di base si comprende la delicatezza del ruolo di chi fa informazione; una notizia manomessa, alterata o , peggio ancora, falsa, sporca la percezione che il cittadino ha di se stesso, del collettivo e di chi lo governa, orientandolo di conseguenza. Il crisismo demolitivo che sta delineando il lavoro della stampa nazionale si muove secondo questa nefasta traiettoria. I motivi sono, essenzialmente, due: il dettato politico (quasi tutte le testate hanno una proprietà partitica) ed il bisogno di fare “cassetta”, bisogno che soltanto le notizie ad altissimo impatto emotivo possono garantire, secondo il principio breueriano-freudianio della catarsi (il lettore scarica ed appaga i propri impulsi più violenti nell’acquisizione di una notizia di importante urto adrenalinico ). Si viene meno, però, ai dettami dell’etica deontologica (mirabilmente illustrati e condensati nello “Statement of Principles” del 1975 ) nuocendo alla società, corrodendone le basi e, quel che è peggio, la fiducia, ammanettandola ad una cultura del disfattismo che mostra i contorni del vicolo cieco.