La Notte dei Morti Viventi
Di George A. Romero
USA, 1968
Con orrore e raccapriccio ho scoperto che su questo piccolo e miserabile pianeta c’è chi ancora non ha visto uno dei dieci/quindici film che hanno rivoluzionato la concezione stessa del cinema moderno. Dedico a loro questa mia recensione, accompagnata dal consiglio di recuperare La Notte dei Morti Viventi per questo Halloween, anche se non amate i film di zombie, anche se non amate l’horror in generale.
Inutile riassumere la storia del film, oramai arcinota, ma vedrò di farlo in pochissime righe. Una sonda di ritorno dallo spazio diffonde delle radiazioni sulla Terra, causando il risveglio dei morti recenti. I ritornanti sono però creature senza più ricordi della loro vita passata, bensì animati solo da una fame antropofoga, cieca e insaziabile. Due fratelli, Barbara e Johnny, si trovano loro malgrado coinvolti nelle prima fase dell’escalation di resurrezioni, proprio mentre sono in visita alla tomba di loro padre, seppellito lontano da casa, nei pressi di Pittsburgh. Uno dei morti viventi uccide Johnny e costringe Barbara alla fuga in campagna. La ragazza si rifugia in una casa apparentemente abbandonata, dove in realtà sono nascosti altri scampati agli assalti dei ritornanti.
E’ l’inizio dell’assedio lungo una notte… La notte dei morti viventi.
Bianco/nero livido, spettrale. Scene crude, musiche angoscianti ma essenziali, ribaltamento dei ruoli e dei cliché del cinema dell’orrore. Non ci sono buoni, non ci sono cattivi. Il mondo creato da Romero è lo specchio deformante di quello reale. L’uomo comune, rappresentato dal mediocre signor Harry Cooper ne La Notte dei Morti Viventi (NDMV d’ora in poi), è meschino e spesso peggiore dei mostri che si trova ad affrontare. Una verità assodata per chi conosce il cinema horror moderno, con la più stereotipata affermazione “i veri mostri siamo noi” che fa capolino in moltissimi film. Ma nel 1968 pre-Romero tutto ciò non esisteva ed era quasi impensabile pensare di proporre una chiave di lettura del genere.
Bill Hinzman, il primo zombie della storia del cinema moderno.
Aggiungiamoci che in NDMV l’eroe è un uomo di colore, Ben, che si mostra un po’ più coraggioso e altruista rispetto ai suoi compagni di sventura. Un po’, non molto. Infatti “eroe” è un termine esagerato per definire il personaggio di Ben, poco accettabile dal pubblico medio americano di quegli anni, in primis perché di pelle nera.
Sapete qual è il bello? Ben, pur essendo più accettabile del meschino signor Cooper e della psicotica Barbara, è colui che ha le trovate meno furbe durante l’assedio. Restare al primo piano, pieno di finestre, esponendo il gruppo ad attacchi da più lati. Rifiutarsi cocciutamente di barricarsi in cantina, solido rifugio ben difendibile.
Ribaltamento totale di tutto ciò che sembrerebbe dettato dalla logica, dalle quieta consapevolezze dello spettatore pre-romeriano. Un eroe di colore, combattivo ma poco astuto. Un americano, padre di famiglia, lavoratore, che davanti all’emergenza diventa pavido, codardo, meschino, ma che continua ad avere fino alla fine – pur inascoltato – l’unica idea che potrebbe salvare tutti: nascondersi in cantina.
Ancora: i due fidanzatini, Tom e Judy, a cui spetta una fine atroce, decretando in qualche modo la morta della speranza, che entrambi (giovani, forti, sani e anche belli) rappresentano.
E infine la signora Cooper e la sua figlioletta infettata da uno degli zombie, a cui spetterà recitare una scena shockante per gli spettatori dell’epoca, assai poco propensi alle scene estreme, specialmente se riguardanti il delicato equilibrio famigliare.
Poi c’è la rivoluzione più nota e strombazzata del film: gli zombie. Che tra l’altro non vengono mai citati con questo nome per tutti i 96 minuti della pellicola.
Gli zombie, che così come li intendiamo oggi, lontani dalla iconografia del voodoo, sono i figli putrefatti e gloriosi di George A. Romero.
Gli zombie, che i critici hanno interpretato in mille modi, attribuendogli significati che a volte travalicano il buon senso. Quel che è certo è che, nella prima trilogia romeriana, quella bella, rappresentano la fine della nostra società, fagocitata da ignoranza, violenza, consumismo e chi più ne ha più ne metta. Aspetti, questi, che ricorreranno più esplicitamente nei seguiti di NDMV, Dawn of the Dead e Day of the Dead. In NDMW abbiamo solo le avvisaglie di tutto ciò, pochi frammenti d’orrore “sociale” che arrivano al pubblico grazie ai fittizi notiziari che Ben e soci guardano in TV.
Per il resto il film è una solida, spaventosa storia d’assedio. Meno simbolico dei suoi due sequel ma forse più terrorizzante.
C’è anche da dire che tutto il simbolismo attribuito allo zombie romeriano viene spesso disconosciuto o minimizzato dal regista stesso, che ha dichiarato più volte di aver voluto fare soltanto del buon cinema di genere. Resta il fatto che l’icona che zio George ha creato supera e surclassa ogni suo tentativo di “normalizzarla”, affermandosi come il mostro dell’epoca moderna. Il mostro della porta accanto.
La scena d’apertura del film
Già, quel mostro che è il tuo vicino di casa. Tuo fratello. Il tuo postino. Il ragazzo che ti falcia il prato. In NDMV sono proprio questi ritornanti ad assediare la casa di campagna dove gli sventurati protagonisti cercano riparo. Di nuovo: si tratta di cose, dettagli e circostanze che il giovane spettatore odierno dà per scontate.
Lo zombie è così perché lo è sempre stato: sfigato, comune, goffo, vestito come un metalmeccanico o come una bibliotecaria. Proletario.
Invece è stato proprio George A. Romero in NDMV a farlo diventare tale, liberandolo dalle storiche imbrigliature della tradizione haitiana e caraibica.
Il finale, che non vi spoilero, è un’ulteriore sfida ghignante che il regista di Pittsburgh lancia a un intero genere, l’horror, che dopo questa sua opera prima non sarà più tale.
Ora, io non sono un collezionista, ma per NDMV ho fatto un’eccezione alla regola.
Ho visto il film in tutte le sue versioni reperibili. Quella originale – ovviamente – sia in italiano che in inglese.
Quella “colorata”, messa in vendita negli anni ’80, in cui gli zombie hanno un insano colorito verdognolo.
Quella colorata del 1997, in cui i morti viventi sono stati ridipinti in modo assai più credibile.
Quella del trentesimo anniversario, commercializzata nel 1999, con tanto di scene inedite aggiuntive e una nuova (discutibile) colonna sonora.
Ho visto anche i due remake: quello del 1990 di Tom Savini (gradevole) e quello del 2006, di Jeff Broadstreet (deprecabile).
Una delle scene più simboliche del remake di Tom Savini.
NDMV è diventato anche un’opera teatrale, che non ho visto. In compenso ho letto la novelization, pubblicata una ventina di anni fa da Urania per il mercato italiano. Per questo film Romero ha ottenuto una marea di riconoscimenti. Il più importante riguarda l’inserimento del film nella Biblioteca del Congresso, nel National Film Registry, in qualità di pellicola “culturalmente e storicamente significativa”.
Girato con quattro soldi da una troupe di amici, NDMW incassò 30 milioni di dollari in un solo anno, risultando come film record di incassi nell’intera Europa per il 1969.
Ma ovviamente il successo di Romero travalica l’aspetto monetario. Il papà degli zombie ha creato una leggenda, un punto di riferimento che, partendo da una vaga ispirazione a Io sono leggenda di Richard Matheson, è diventata una vera e propria Bibbia moderna.
Un capostipite che ancora oggi ispira dozzine di film ogni anno, centinaia tra fumetti e romanzi, videoclip e parodie.
Inarrestabile, immortale.
Ritornante.
Partendo da un budget di 6000 dollari e da un gruppo di coraggiosi amici appassionati di cinema, Romero ha infettato l’immaginario globale.
Ho visto i morti camminare. La prima volta è stata nel 1968 (cit).
- – -
La recensione di Messer Sottile, che ha visto il film per la prima volta proprio in questi giorni.