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“Ali riflesse nel sole”, la nuova raccolta di poesie di Lina Latelli Nucifero
di Pasquale Allegro
Tra l’immagine della vita e quella della poesia la differenza dev’essere netta, senza vie d’uscita. Non si può essere poeti padri e madri di un’innocua creazione poetica, e poi sbattere la porta ai ricordi veri e tentare di conservarne il rumore, sordo, in un tonfo nel vuoto senza fondo né pareti; perché “Non si può fingere ogni giorno/ Una vita che non c’è”. È come leggere dei versi composti da una sensibile poetessa, che confonde le sue emozioni con i colori invece che con le parole, tanto che quelle tinte ogni giorno si fanno selvagge e drammatiche, s’impongono; nella complessa e intricata rete di relazioni di cui è intessuta la nostra vita quotidiana, quando le chiazze di quella materia di cui Shakespeare imbrattava i suoi sogni si trattano con quella irruenza sofferta di cui sarebbe capace la sola penna. Il risultato è una pennellata di mondo, piccola e tascabile miniatura di cosmo, a misura d’uomo e ad apertura d’angelo, perché provvisoria e infinita allo stesso tempo. È come leggersi “Ali riflesse nel sole”, la nuova silloge di poesie di Lina Latelli Nucifero, poetessa e docente lametina, già nota all’universo letterario per le sue liriche espressioni e per i premi ricevuti in diversi concorsi nazionali ed internazionali.Pubblicata da Falco Editore, la raccolta segue la prima “Il canto delle sirene” di qualche anno fa, e si concede da subito al cuore per essere il sentito omaggio dell’autrice alla figlia Alida, scomparsa a soli venticinque anni, per un episodio di malasanità. (“E dall’alto scesero gli Angeli/ All’alba di un giorno d’agosto”).Tutto questo ha consegnato molta più poesia ai suoi soggetti, che siano paesaggi sospesi, ritratti di natura, o figure umane e soprannaturali: tutti comunicano il dolore e la smania di risposte. La riflessione investe la natura dei sentimenti e delle cose, affonda lo sguardo nelle nostre stesse radici di uomini soli, ognuno per tutti, e nelle sue profonde di madre serena smentita dalla sorte e di artista in preda alla sconquasso della scrittura. Si tratta infatti di una scrittura come rifugio, come riparazione, sottocoperta tra saette e tempesta, quasi a ricomporre quello scenario strappato, quasi a ricomporsi: “M’invento la vita/ Nel deserto infinito/ Dell’io”, scrive di sé l’autrice, e si rimodella.A questo scopo ricorre tecnicamente all’uso prezioso della metafora, ad una famiglia di brulicanti metafore connesse ad un’idea di mondo naturale come foglio - meglio foglia - da leggere, in una versione meno trionfalistica di panismo dannunziano; per cui la Latelli desidera raccontare letteralmente per immagini l’Alida splendida quanto fragile, farfalla dai pigmenti bruni e gialli con “le sue fantastiche chimere”, esile fiore su cui, nella struggente Favole, s’abbatte “una roccia gravosa”; e si profila anche il racconto dell’anziana madre, nell’ultimo bacio con la terra fredda di “una quercia abbattuta”. È la potenza della metafora, certo, ma è solo un effetto, un inganno, perché poi si legge “Favole.... i sogni falciati”, e ancora “Ali riflesse nel sole/ Angeli diafani al tatto”, in cui il pensiero va alle ali di cera di Icaro, nell’abbraccio sofferto di Dedalo padre. A chi somiglia mai quell’albero smosso, sembra chiedersi dunque l’autrice in punta di metafora, davanti al rifugio che comunque le può offrire quell’espediente poetico.Lo stile ha un impianto classico, così come descritto nella prefazione dal critico letterario Tommaso Cozzitorto, con un uso sistematico dell’a capo nei versi: per obbedire solanto a esigenze ritmiche o per spezzare quel senso interrotto di gioia. Come nella disarmante I giorni che verranno - “I giorni che verranno/ Di vuotaggine colmati/ E di silenzio” - o nella bellissima Scende la sera - “Mentre pietose/ Lacrime piovono/ Le stelle lassù.../ Dal firmamento” – in cui la Latelli restituisce l’immagine di un capitombolo cosmico, lei donna poeta che implora conforto in mezzo a quello scintillio della sera. Quando anche il pianto brilla di luce propria: “E tremano le lacrime/ Ai margini degli occhi”.Eppure non sguaina versi come fossero spade, non ricorre al grido di Abramo davanti al sacrificio più grande, ma davanti al silenzio di Dio prega sulle ginocchia di Giobbe e compone la sua domanda: “Fa’, o Signore, che il mio cuore cominci a pulsare/ Nella tua misericordia”. Perché è misericordioso il suo Dio, recita in un altro titolo.La seconda parte della silloge raccoglie, invece, poesie che esprimono, di riflesso, la passione interlocutoria con cui l’autrice affronta eventi importanti, sensazioni, esperienze. Sempre nel merito della sua particolare capacità di comprendere il cielo e la terra insieme, e di lasciare immaginare cosa comporterebbe quell’incontro. “Ritorna Caino/ Dagli occhi di pietra/ A divorare il cuore/ Del fratello”, canta la Latelli a memoria della tragedia dell’undici settembre, in un linguaggio scarno, ma dal triste suono della sentenza, che ricorda a tratti i segni di Quasimodo. Ne La giornata della memoria, invece, s’inserisce nel solco della poesia dei sopravvissuti, all’ombra di Borowski per come descrive i lineamenti di quel mistero insondabile che è Auschwitz: “Gambe stecchite/ Come i pali della luce/ Conficcati/ Nella terra di Polonia”. Infine come non pensare a Costabile ne Gli emigranti: “I tuoi figli lasciano ancora/ Gli ulivi e le mimose/ I fichidindia e i rossi gerani/ E l’edera che si arrampica/ Sui muri diroccati/ Delle case abbandonate”. E come non pensare a lui ogni qualvolta si canta di qualcosa che si è lasciato, ma mai perduto: che si tratti di terra di Calabria o di sorriso di bambina, si torna sempre nel sole. da "Il Lametino" n.195
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