"La pace non trovò nè oppressi nè stranieri". Gli spaghetti del 24 maggio 1915 per l'Mtchallenge #48

Da Lacucinadiqb

“Nonno, raccontami della Guerra!” La mia curiosità di bambino e la passione per i film dove i soldati facevano mostra del loro valore, indossando divise belle intonse come il giorno della parata, mi inducevano sempre a chiedere a nonno Tiziano di condividere i suoi ricordi di ragazzo nato nel 1899. “Quanti nemici hai ucciso?” era la domanda topica con la quale cercavo di mettere alle strette la sua reticenza. “La guerra è una brutta bestia”, rispondeva sempre, con gli occhi velati da tanta, tanta tristezza. “Nonno, ma gli austriaci erano pur sempre i tuoi nemici, gli invasori stranieri che opprimevano!” esclamai un giorno, quasi incredulo dinnanzi alla sua visione così disfattista di quanto era stato necessario fare per ottenere la vittoria. “Gli Austriaci erano ragazzi come me che se la passavano ancor peggio. Sai quante volte ho lanciato pezzi di pane secco oltre la nostra trincea? E sai quante volte ho passato loro la sega per tagliare il ghiaccio così da consentirgli di seppellire i morti non a mani nude?”

Finché un giorno mi raccontò anzi, scrisse, vergando alcuni fogli di uno dei miei quaderni di studente delle elementari, con le righe già segnate ed i bordi definiti da due graziose parallele color violetta, quasi a lasciare un testamento, una memoria scritta, di tutto il suo disagio per essere stato costretto a compiere azioni che non riteneva giuste e di tutto il suo dolore per essere stato costretto ad assistere alla morte della pietà e della compassione.
Mi chiamo Fumegale Tiziano, fu Massimiliano e di fu Maria Angela. Sono nato a Vicenza il 21 luglio 1899. Sono stato incorporato nel 6° Genio Ferrovieri, nel mese di giugno 1917 ed inviato, per cause di emergenza, al Distretto Militare di Vicenza, dove fui destinato all’11° Fanteria a Forlì (Deposito del Reggimento). Qui mi mandarono a raggiungere il mio Reggimento che si trovava a Gorizia, che già era stata occupata. Giunto a Gorizia fui destinato a fare un compito un po’ arduo e cioè fare un varco per tagliare i reticolati che però avevano la corrente. Io andai dal mio Tenente per dirle che oltre alle tenaglie mi occorrevano ancora altri tre uomini, perché i reticolati erano appoggiati sopra 4 cavalletti di Frisia ed avevano la corrente. Era il mese di ottobre. Tutto buio. Io dissi a loro (ero il Capomaggiore) “Prima comincio io, che sono il primo, poi il quarto, poi il secondo ed infine il terzo”. E così fu fatto. Tagliammo un varco usando le tenaglie foderate di nastro isolante e ad ogni taglio si vedevano nella notte tutte le fiammate dei reticolati. Il varco era stato aperto così che le truppe poterono avanzare. Però, invece di rientrare in quattro, rientrammo in tre perché, poveretto, uno si è incagliato con la giacca nei reticolati ed è stato mitragliato. Però la Medaglia d’Argento gliela diedero al Tenente, che se n’era stato calmo sotto la tenda. Poi mi spostarono di fronte ed andai al Piave e poi sul Monte Paù. Ma non posso ricordare tutte le peripezie trascorse.”

Per la sfida #48 dell'Mtchallenge, lanciata da Paola, ho immaginato il nonno in trincea con un coetaneo siciliano, ancora più spaventato di lui, in quanto scaraventato in una terra straniera, letteralmente straniera, dove non era possibile riconoscersi in nulla. Non certo nel clima così rigido degli inverni sull’Altopiano, con le trincee scavate nella neve e nel ghiaccio che superavano i tre metri di altezza. Non certo nella lingua! Come potevano comprendersi due contadini adolescenti che fino a qualche mese prima compivano i medesimi gesti ma a mille chilometri di distanza l’uno dall’altro? E neppure nel cibo, così diverso. Nei colori, nei sapori, nei ricordi. Li univa solo la disperazione, la consapevolezza di essere finiti in un girone dantesco, tra le teste dei compagni che saltavano a pochi decine di centimetri centrate da cecchini ugualmente adolescenti, tra gli arti feriti tagliati con la sega e senza tanti complimenti,   tra il terrore dei gas nervini, armi vigliacche usate da uomini senza onore, ad aspettare che si sciogliesse la neve per lavarsi, a bere da pozze di fango e sangue perché resi pazzi dalla sete.

Ho immaginato i morsi della fame che amplificavano tutti i profumi e tutti i ricordi legati al cibo ed ho pensato alla dolcezza di Tiziano verso un Antonio tanto spaventato, ricambiata con quanto era rimasto nello zaino di quest’ultimo, a condividere nel fango di una tragedia senza fine gli ultimi sprazzi di una giovinezza rubata. Ecco allora uscire come da uno scrigno magico i profumi ed i colori della Sicilia di Antonio così sconosciuti a Tiziano che contribuisce con quanto gli era rimasto della sua Vicenza, un pezzo di crosta di Asiago stravecchio, avvolto in un fazzoletto liso, che avrebbe dato all’acqua della pasta una sapidità maggiore, come tante volte aveva visto fare in cucina da mamma Angela, mentre preparava la pasta e fagioli più buona del mondo. Infatti il sale, così prezioso per la Serenissima, non c’è: troppo costoso, soprattutto in trincea, e viene sostituito dall’acciuga e da un po’ di spirito di adattamento. Il sugo di accompagnamento è un arcobaleno di colori e di sapori: il pomodoro secco è un pomodoro siccagno della valle del Belìci, dove si coltivano ancora dei grani antichi come il farro e il grano duro timilìa una varietà meravigliosa, dalla vita breve e dai profumi intensissimi. E’ scuro, quasi grigio, come la trincea, come la guerra. Anche la scelta della forma della pasta, le caserecce, non è un caso: richiamano le onde sensuali dei campi di grano mosse dal vento caldo delle estati siciliane, le corse a perdifiato nascosti dalle spighe dorate, i boccoli neri di una ragazza, così bella da togliere il fiato, appena sfiorati solo pochi mesi prima. La colatura è il guizzo argenteo di una sapienza antica, come tutti gli ingredienti di questo piatto, sapienza feconda, quella che andrebbe narrata sempre, quella che, nei miei pensieri, è la sola titolata a “nutrire il pianeta”.
Casarecce di Timilia con passata di datterini, pesto di albicocche e pomodori secchi, polvere di capperi e granella di pistacchio
Ingredienti (per 1 gavetta)
80 g di casarecce di Timilia o Tumminia (presidio Terra Madre, Slow Food) un pezzo di crosta di Asiago stravecchio 2 albicocche secche di Scillato 2 pomodori secchi 2 acciughe e qualche goccia di colatura di alici un paio di cucchiai di coulis di datterini confit qualche pistacchio tostato polvere di capperi Olio evo (ne ho usato uno proveniente da Alcamo)
Ingredienti e procedimento per la passata di pomodoro 500 g di pomodorini datterini bouquet garnì qualche spicchio di aglio rosso olio evo Inserire i datterini in un sacchetto da sottovuoto con gli aromi, unire un paio di cucchiai di olio evo, sigillare e cuocere a 40° per circa 3 ore immersi nell'acqua. Frullare, passare al colino, regolare di sale e pepe monk macinato al momento e mettere da parte. Ingredienti e procedimento per la polvere di capperi Capperi di Salina Sciacquare ed asciugare i capperi e farli essicare (anche nell'essicatore) nel forno statico a 80°. Far raffreddare completamente e frullare. Mettere da parte la polvere ottenuta in un piccolo vasetto pulito di vetro. Procedimento Tagliare a concassè i pomodori secchi e le albicocche, mescolare e dividere a metà. Tostare i pistacchi in una padella antiaderente e tritarli grossolanamente al coltello. Portare a bollore l'acqua con la crosta di formaggio e lessare a pasta. In una pentola di ferro stemperare le acciughe con un paio di cucchiai dell'acqua di cottura fino ad ottenere una salsina omogenea. Lontano dal fuoco unire la metà del trito di albicocche. Scolare la pasta appena al dente, eliminare la crosta, in una padella spadellare la pasta per 1' con un paio di cucchiai di coulis di datterini. Unire la salsa di acciughe e qualche goccia di colatura di alici. Impiattare decorando con il trito rimasto, la polvere di cappero ed il trito di pistacchi

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