Una pagella autoprodotta. Poco soddisfatto dell’annuale rapporto – il quindicesimo della serie – pubblicato dalla Commissione europea sull’andamento dei negoziati di adesione nel 2012, giudicato in Turchia ingeneroso e fattualmente inesatto, il ministro per gli affari europei Egemen Bağış ha avuto un’intuizione – come nel suo stile – provocatrice e geniale: preparare un contro-rapporto, rispondere perentoriamente con l’ufficialità dei dati e delle leggi approvate. Lo ha annunciato in conferenza stampa il 10 ottobre ed è stato di parola, ha mobilitato i suoi uffici e ha ottenuto la collaborazione degli altri ministeri competenti: il risultato è stato diffuso online il 31 dicembre, un volume di 270 pagine che – analiticamente, in ognuno dei 33 capitoli negoziali – presenta i progressi compiuti in quest’anno solare sulla via della ‘democrazia avanzata’.
Ma la sua è soprattutto una risposta di enorme valenza politica, lo afferma esplicitamente nel comunicato stampa che accompagna il rapporto: “Una risposta a chi mette in dubbio la determinazione riformista del nostro paese”, a chi mette in dubbio – strumentalmente – la volontà della Turchia di continuare il cammino verso l’Europa cominciato nel 1959. Del resto, il ministero per gli affari europei è stato creato molto di recente, dopo le elezioni del 2011: un gesto di fiducia e di costruttiva sfida all’Europa; mentre il Gruppo per il monitoraggio delle riforme – coi ministri degli esteri, degli interni e della giustizia (all’ultima riunione di novembre, a Bursa, ha partecipato anche il vice-premier Bülent Arınç) – si riunisce periodicamente dal 2003 per valutare autonomamente i progressi compiuti e individuare le aree prioritarie d’intervento. Inoltre, la scelta europea – la membership piena nell’Ue – è enfaticamente confermata come ‘obiettivo strategico’ nella Visione 2023 dell’Akp, il documento politico lanciato lo scorso settembre che individua le aspirazioni per il prossimo decennio del partito conservatore d’ispirazione islamica al potere dal 2002.
Certo, negli ultimi due anni i negoziati formali di adesione si sono sostanzialmente arenati, dal 2010 non sono stati aperti nuovi capitoli negoziali: soprattutto per i veti della Francia di Sarkozy e della Repubblica di Cipro (ne sono stati aperti complessivamente 13, solo uno è stato chiuso). Tuttavia, un percorso parallelo ma non alternativo – l’agenda positiva lanciata dal commissario all’allargamento Štefan Füle già nell’autunno del 2010 – è rimasto attivo per tutto lo scorso anno dando buoni risultati: e nonostante il boicottaggio turco del semestre di presidenza cipriota, appena concluso, i rapporti con le istituzioni comunitarie – Commissione e Parlamento – sono andati avanti senza particolari intralci. Inoltre, la delegazione dell’Ue ad Ankara – la più numerosa all’estero, con uno staff di 140 persone – continua a promuovere progetti di cooperazione, riforme democratiche, iniziative per migliorare il sistema produttivo.
Certo, i sondaggi mostrano disaffezione per l’Europa dei 27, la crisi economica e l’ostracismo di qualche paese ne hanno intaccato la popolarità: ma il messaggio dei leader politici turchi è chiaro, non c’è nessuna volontà di tirarsi indietro e nessuna tentazione di negoziare per finta – nonostante un ritmo riformista apparentemente meno spinto che in passato. Anzi, la presidenza irlandese appena iniziata viene considerata un’ottima occasione per il rilancio dei negoziati, i rapporti tra Ankara e Dublino sono eccellenti; e sono in effetti i prossimi tre semestri che invitano all’ottimismo: perché dopo l’Irlanda verrà il turno della Lituania anch’essa pro-adesione e della Grecia che ha un naturale interesse alla cooperazione con la Turchia nei Balcani (per il 2014 già è previsto un nuovo summit a Salonicco sui Balcani occidentali, dopo quello storico del 2003). In più, per la primavera è atteso in Turchia il presidente francese Hollande, nella prima visita di stato dopo quella di Mitterrand nel 1992: e a lui verrà chiesto – anche in virtù dei plurisecolari rapporti politici, economici e culturali tra i due paesi – l’abbandono dei veti europei e dell’islamofobia populista (oltre a meno zelo nel ricordare le tragiche sorti della popolazione armena dell’Impero ottomano, in vista dell’imminente centenario del 2015).
Le obiezioni di fondo al rapporto della Commissione europea – che esprime rilievi sull’adeguamento formale e sostanziale all’acquis communautaire – sono state ripetutamente espresse due mesi fa in modo anche sgarbato e non solo retoricamente: un deputato dell’Akp e docente di diritto costituzionale – Burhan Kuzu – lo ha scaraventato nel cestino davanti ai fotografi, scatenando le immancabili polemiche politiche e giornalistiche. Un atto di rassegnazione, più che di rabbia: perché le critiche di Bruxelles sono state considerate esagerate e dettate da considerazioni politiche, perché ha infastidito il petulante accento sulle manchevolezze e su quel che resta da fare – soprattutto in termini di libertà individuali – più che sui passi in avanti. L’irrisolta questione di Cipro, l’isola che da quasi 40 anni attende la riunificazione, è una complicazione in più: la Turchia – ma non senza motivo – è perennemente sul banco degli imputati e la sua reputazione ne risente.
Il rapporto contiene la lista delle “riforme realizzate nell’ultimo anno che hanno avvicinato la Turchia agli standard europei”: il totale delle leggi di armonizzazione approvate, nel decennio dell’Akp, è di circa duemila. Solo nel 2012, tra quelle di maggior rilievo: il terzo ‘pacchetto’ per il sistema giudiziario che ha ad esempio ridotto portata e durata della carcerazione preventiva, mentre il quarto in preparazione dovrà irrobustire le libertà di stampa e di espressione; la possibilità per gli individui di adire direttamente la Corte costituzionale e la nomina del primo Ombudsman; la ratifica del protocollo addizionale della Convenzione sulla tortura e altri trattamenti inumani e degradanti; l’introduzione dell’insegnamento opzionale del curdo, come di altre ‘lingue viventi’ e dialetti, nella scuola dell’obbligo (la cui durata è stata portata a 12 anni); la legge per combattere la violenza contro le donne e l’adesione alla relativa convenzione del Consiglio d’Europa, insieme ad altre iniziative; la restituzione delle proprietà confiscate alle minoranze religiose (il ministro Bağış è spesso presente a incontri coi leader delle comunità non musulmane, religiosi e civili); l’abolizione di divieti nell’uso del curdo (anche nella propaganda politica), in attesa dell’introduzione del diritto di difesa nella propria “lingua madre”, e la creazione di dipartimenti universitari per assicurarne l’insegnamento; la nuova legge che amplia i diritti sindacali. Senza menzionare quelle in campo economico, che hanno portato a crescita e sviluppo anche in tempo – altrove! – di crisi.
Il ministro Bağış, nel suo comunicato stampa, ha trionfalmente parlato dei tempi “più democratici, più prosperi e più trasparenti” della storia della Turchia; i toni sono spocchiosi, ma non manca la consapevolezza di un processo ancora in divenire: “Il nostro obiettivo è di raggiungere standard elevati in ogni campo grazie alla dinamica creata dal processo di adesione all’Ue e di migliorare ulteriormente i diritti e le libertà fondamentali dei nostri cittadini”. Più che di rimbrotti e bacchettate, la Turchia sembra aver bisogno di incoraggiamenti: nel processo di consolidamento delle riforme democratiche, che passano per l’approvazione di una nuova costituzione civile (a sostituire quella militarista e autoritaria del 1982) e per un nuovo rapporto con tutte le minoranze di cui è composta – a partire dai curdi. L’abolizione dei visti per i cittadini turchi da parte dei 27 è l’apertura che Ankara si aspetta, che reclama a gran voce da tempo.
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