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Alla vigilia della partenza per Sarajevo, con Il Ponte sulla Drina sulle ginocchia, queste parole pescate in un libro di Rumiz assumono un altro significato. 100 anni fa scoppiava una grande guerra, ad aprire il secolo breve. Questo fine settimana si va a vedere dove è cominciato buona parte di quello che siamo.
"Dicono: ogni ponte che cade è un confine in più e una possibilità di riconciliazione in meno. In questa guerra nse ne sono abbattuti più per sradicare i simboli dell'appartenenza che per reali motivi militari. "Ovunque nel mondo, ovunque il mio pensiero vada o si arresti" scrive Ivo Andric nel suo Ponte sulla Drina, "trova fedeli e operosi ponti, come eterno e mai soddisfatto desiderio dell'uomo di collegare, pacificare e unire tutto ciò che appare davanti al nostro spirito, ai nostro occhi, ai nostri piedi, affinché non ci siano divisioni, contrasti, distacchi."
Se la costruzione del ponte è la più sublime delle ingegnerie, il suo abbattimento è la più impressionante delle distruzioni. Un ponte che cade è come una bestia che si piega sulle ginocchia dopo il colpo alla cervice. Manda un segnale cosmico, spezza qualcosa nell'universo. Quando. Asse il ponte di Mostar non fu un videogioco. Sprofondó nell'abisso, per un attimo acquistò una pesantezza che non aveva mai avuto, poi si smaterializzò nella gola della Neretva.Rimase - e sarebbe rimasta a lungo - la parabola sospesa di un ponte che non c'era, tesa tra i due tronconi che si chiamavano. Poi, dai monti dell'Erzegovina sorse un pianeta enorme, giallo cartapesta. Solo allora si vide la data. Era il 9 novembre 1993, quarto anniversario della caduta del Muro di Berlino. Si vide che, con lo Stari Most, era franata l'illusione che la fine del comunismo sarebbe stata, per i popoli, una festa di primavera. Solo allora tacquero i mortai e abbaiarono i cani.
Tre estati prima fu proprio quel ponte a Mostar a dirmi che stava arrivando la guerra. Era sera, la brezza mediterranea entrava nella gola. Il fiume era gonfio, la settimana prima era piovuto, i ragazzini si tuffavano e poi si arrampicavano per un sentieri o. Già si sparava in Croazia, ma la Bosnia emanava una pace infinita. Un vecchio venditore di souvenir ci offrì un caffè sul belvedere. Sedemmo sulla panca in pietra alta sulla Neretva, mangiammo dolcetti a forma di mezzaluna, parlammo di cose leggere. Solo al momento di congedarci il vecchio ci fulminò dicendoci quasi con noncuranza: questa è l'ultima estate di pace.Per lui il punto non era un manufatto, come per noi e il soldato John. Era il luogo della memoria che dava senso alla vita e alla morte. Quell'incontro con il vecchio avrebbe perfettamente illuminato di senso, ai miei occhi, la successiva distruzione. La quale non fu affatto un "accidente" della guerra, ma l'azione mirata a negare ai bosniaci il diritto alla memoria. Noi fatichiamoa capire, ma l'Oriente ci ammonisce: nella nostra cultura c'è una finta razionalità, nessuna bomba può essere intelligente, e le guerre scatenano nei popoli tempeste identitarie che nessun computer può prevedere. La nostra logica nei Blacani non funziona."
Paolo RumizOrientePag. 107
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