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La parabola del dolore in Elsa Puglielli

Creato il 25 novembre 2013 da Rita Charbonnier @ritacharbonnier

Sono rimasta così colpita dalla relazione che Maria Pia De Martino (medico e letterata) ha tenuto a Isernia, sul mio romanzo Le due vite di Elsa, da pregarla di inviarmene una versione scritta così da poterla pubblicare sul blog. La sua analisi del romanzo ne evidenzia in particolare gli aspetti psicologici: davvero molte grazie.


Articolo di Maria Pia De Martino

La parabola del dolore in Elsa Puglielli

Le due vite di Elsa. Edizioni Piemme

È linguaggio dell’anima, linguaggio del corpo, inquietudine, memoria, la grande parabola agonica del dolore nella figura di Elsa Puglielli. È ragione del cuore, che è il senso più profondo del vivere, come trasversalità necessaria per desiderare – imparare a farlo – le ali della libertà.

Un modo di essere, quello di Elsa Puglielli, che attraverso incandescenze radicalmente diverse confluisce in esperienza “psicotica”, espressione di malattia “mentale”. Ma non c’è esperienza psicotica (la psicosi è vera malattia) o neurotica (disagio nevrotico) che non si accompagni a quella esperienza del dolore che giunge a lacerare l’anima. Esperienza che non può essere analizzata e decifrata se non scendendo tra i rovi, negli abissi dell’interiorità. Quando la depressione o – ancora più angosciante – la dissociazione psicotica scendono in noi, come potremmo non essere colpiti dalla dolorosa e immediata percezione che tutto sta cambiando in noi, nella nostra anima?

Elsa è una giovane donna, anzi un’adolescente, che vive nella Roma del 1932, in piena epoca fascista, di famiglia alto borghese, con alle spalle una storia davvero lacerante. Vite rubate e sostituite, ruoli infranti e dispersi in apparente normalità, ipocrisie sociali che culminano in silenzi profondi. Una balbuzie che l’affligge fin da piccolissima – e che andrebbe indagata in ambiti temporali remoti – rappresenta la timidezza (paura) del vivere un ruolo che non è il proprio. La perdita tragica di una madre amatissima vissuta come abbandono reale diviene in lei dolore che non può essere stralciato dall’esperienza del tempo. Sarà necessario un lungo periglioso percorso di sofferenza per giungere alla libertà della verità. Un viaggio attraverso i luoghi sconosciuti e primitivi di una psicoanalisi storicamente nascente, luoghi pericolosi che potrebbero consegnarla definitivamente alla follia. Un viaggio dell’anima dolente di cui ella non conosce il senso né la mèta, ma ne conosce la necessità: verrà per questo ricoverata in una clinica psichiatrica svizzera dove si pratica la psicoanalisi.

La figura di Anita Garibaldi – l’altra identità di Elsa – si erge maestosa e terribile nella sua verità, come l’amore per Giuseppe Garibaldi: non sapremo mai se Anita sia una proiezione del desiderio inconscio di essere ciò che Elsa non è, ma sa di volere e poter essere (pag. 270/271):

«…Il suo pensiero è complesso, dicevo, e comunicarlo le è difficile; e questo c’entra poco con la balbuzie, e c’entra poco, mi perdoni, con tutto quel che può averle detto o fatto sua zia. Lei quando parla rende ogni cosa più semplice e vaga di com’è nella realtà ed evita di concentrarsi sui dettagli, per mettere un diaframma tra se stessa e alcune cose di se stessa che ancora non vuole affrontare. […] Così facendo, s’illude di arginare una sensazione angosciosa: quella d’essere come una foglia trasportata da un vento che talvolta è una brezza piacevole e gentile, ma molto più spesso è simile al “minuano”, il gelido alito della pampa del quale probabilmente avrà sognato. Lei sente di non avere alcun potere su sentimenti di una violenza straordinaria che la afferrano, la travolgono e la spingono dove vogliono loro; ma se persiste nell’indicare la zia Olga come causa di ogni suo male, fa solo il gioco di quella sensazione. Pensi alla sua eroina. Una donna priva di padroni. Una guerriera. Lei non era trasportata dal vento, oh no; lei il vento lo fendeva galoppando. Secondo me, signorina, è perlomeno anche per questo che Anita è così importante per lei.»

Sappiamo di certo però che Elsa troverà l’equilibrio e la verità insieme all’amore per il giovane Giuseppe, proprio quando i resti mortali di Anita saranno traslati al Gianicolo accanto a quelli dell’Eroe dei due Mondi.

anita

Anita Garibaldi. Fonte

Molto sintetico quanto ho detto della trama di Le due vite di Elsa, ultimo romanzo di Rita Charbonnier; ma ciò che mi colpisce in particolar modo è la perizia con cui è condotto lo studio della personalità della protagonista, nel suo divenire dal patologico alla normalità. Mi colpisce il coraggio che Elsa dimostra nella ricerca “ossessiva” del proprio Io, mi colpisce la fragilità dei personaggi che circondano Elsa (i cosiddetti normali), ma anche la fragilità di un tempo storico che si preannuncia terribile nella sua drammaticità. Mi colpisce quanto di psicoanalitico l’Autrice abbia raccontato senza parlare mai di psicoanalisi. E, come medico, mi colpisce la limpidezza del metodo di indagine del dolore proprio della nuova psichiatria, quella che ha chiuso per sempre i manicomi nel 1978 per il grande impegno di Franco Basaglia.

Un metodo che indaga il dolore che non è stralciato dall’esperienza del tempo del mondo, della clessidra cioè, che scorre uniforme e inesorabile al di là di noi, delle nostre attese, sofferenze e illusioni. Di quel dolore che guarda al tempo soggettivo, quello vissuto dall’Io: alle diverse possibili denominazioni dell’esperienza personale, diversa in ognuno, nel tempo immanente alla vita. In questo tempo, futuro, presente e passato s’intrecciano e sconfinano vertiginosi l’uno nell’altro, senza discontinuità. Nel dolore il divenire del tempo, scandito diversamente dai nostri stati d’animo, si arresta e talora si frantuma, invischiato in un presente immobile e pietrificato. Le conoscenze e il tempo, solo se accompagnati dalla consapevolezza del dolore ci consentono di capire i modi di vivere e di morire, nostri e degli altri.

È il dolore a generare i pensieri, nutrendoli e animandoli dalle remote regioni delle emozioni e delle passioni: l’esperienza della follia in Elsa Puglielli, alla luce di ciò, non esiste. La sua è la condizione umana che è di tutti, la sua tristezza è una malinconia concettuale vera e propria, simile a milioni di malinconie, come quando si pensa a certi giorni d’infanzia perduti, come quando vediamo il sole tramontare in certo modo (pag. 317/318):

rocksss

Foto: Rocksss

Elsa ebbe un moto d’insofferenza. «Signor primario, mi scusi ma – ma io non sono disposta a pensare che credermi Anita Garibaldi faccia di me una squilibrata. Avevo degli attacchi isterici, e adesso non ne ho più: solo questo conta. E poi tutto, per me, s’inquadra in una sorta di macchinario girevole, al momento, tu – tutto quello che mi dava angoscia adesso è privo di un simile potere, poiché rientra in un quadro complessivo, nel quale nulla può ampliarsi fino a impregnare di sé tutto il resto. […] Non che io sia ancora completamente sicura di tutte queste cose, intendiamoci, ma – magari lo fossi. Ora vedo tutto in modo diverso e mi domando: ma un punto di vista mio, ce l’ho davvero? A tratti mi pare di avere un maggior equilibrio, un maggior distacco, ma poi mi assale un dubbio: non sarà anche questa una posizione destinata a sparire, cancellarsi, essere sostituita da altre? Ho alcuni sprazzi di – di gioia, ma per il resto mi sembra di vagare all’interno di una scatola, come se davanti a una nuova me stessa esitassi, trattenuta dal timore di perdermi…»

Ma le parole non sono di questo mondo, sono del silenzio, un mondo a sé stante, altro, il mondo dei suoni. La balbuzie iniziale di Elsa trattiene una triste nostalgia del “non-vero”, denuncia la malattia della sua anima che diviene dispensatrice di immaginazione creativa in un mondo di suoni perfetti. La narrazione delirante di Elsa, il suo fluire, è una modalità radicalmente umana di interpretazione del sé e del mondo. Nella sua genesi hanno radicale importanza le esperienze che si sono vissute in vita – in quale delle due: in quella di Elsa o in quella di Anita? – , la natura del temperamento, la solitudine. Non il finito, ma l’infinito è la trama della schizofrenia, se così vogliamo chiamarla, della protagonista (pag.172):

«Io sono sopra il tempo. Io sono oltre il tempo. Io so chi sono, e so chi sono stata. La mia vita con Giuseppe si è interrotta troppo presto; la nostra parabola è stata crudelmente breve. Ma adesso (di questo sono certa, e mi creda, non abbandonerò il mio convincimento) ne abbiamo a disposizione un’altra, tutta nuova, tutta da creare.»

E nell’infinito delle sue speranze, oltre alla disperazione della solitudine, c’è la tenacia terribile nella ricerca del proprio Io nella Verità. In perenne metamorfosi e reincarnazione, il tempo di Elsa è un fiume in cui tutte le apparenze si dissolvono continuamente, tutte le figure muoiono e rinascono identiche in nuova forma. Mentre ella attraversa i solitari labirinti dell’anima, la sua mente è netta e il passo è quello sicuro e rapido di chi conosce solo l’ostinazione per la Verità. E la Verità emerge nella memoria e da essa fino a riconoscerla e a farla riconoscere (pag. 339/340):

Attraversano la terrazza panoramica, fino alla balaustra. L’aria è tersa. Lei si guarda intorno e si domanda come si possa non provare un amore sconfinato per la vita. Lui guarda lei e si domanda come si possa fuggire da ciò che più si desidera. […] Lui, cauto, le prende una mano. Le dita s’intrecciano con naturalezza; notano entrambi, con gioia, come non sembri la prima volta che questo accade. Lei gli indica il punto del sentiero dove Aguyar fu colpito alla testa da una scheggia di granata, poi lo conduce allo spiazzo sul quale lui si trovava, quando lei corse a dargli la notizia. Allora si abbracciarono singhiozzando. Anche adesso si abbracciano. Ma non ci sono lacrime. Tenendosi stretti, volgono gli sguardi verso Roma, la città per difendere la quale una volta lei è morta.
È bellissima.

Cadono così le parole sulla carta, incidendo brevi segmenti di battute lente, lasciando spazio alle immagini di una Roma bellissima, nitida ormai tra le nebbie che dileguano, inermi, dinanzi alla maestosità della Verità. Che è, in fondo, la Bellezza.

Maria Pia De Martino


Nata in provincia di Isernia, Maria Pia De Martino si è laureata in Medicina a Napoli, dove ha anche conseguito la specializzazione in Pediatria ed esercita la professione di pediatra ospedaliero. Scrive fin da giovanissima; ha pubblicato diverse raccolte di testi poetici, vinto premi e presieduto a sua volta concorsi di poesia. È fondatrice e Presidente dell’Associazione Culturale “Le Nuvole” di Napoli e presidente del premio letterario nazionale “Le Nuvole-Peter Russell”; collabora con diversi artisti, intellettuali e istituzioni culturali.


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