La parabola di Novi Sad, da capoluogo interetnico ad anonima provincia serba

Da Eastjournal @EaSTJournal

di Christian Eccher

tramonto a Novi Sad

Le chiatte provenienti dal nord scivolano rapidamente lungo il fiume e scompaiono alla vista dopo aver virato verso sud per seguire l’ansa che costeggia la collina su su cui è situata l’enorme fortezza austriaca di Petrovaradin, eretta circa tre secoli fa a difesa del confine fra l’impero asburgico e quello turco.

Sotto di essa, il Danubio si allarga maestosamente per assumere le sembianze di un lago da cui emergono, sulla riva destra, insieme ai bastioni della piazzaforte, i dolci pendii della Fruška Gora, i cui aggraziati rilievi spezzano l’angosciante monotonia della pianura pannonica che si estende sulla riva sinistra del fiume, dove non bastano neppure le sagome delle abitazioni, dei palazzi e delle chiese di Novi Sad a movimentare il paesaggio.

La fortezza di Petrovaradin

Vista da Petrovaradin, la città appare austera e immobile, ferma come le scie bianche che le barche dimenticano dietro di loro mentre risalgono il Danubio e che, osservate dall’alto, somigliano alle arcate chiarissime abbandonate in cielo dai jet i quali, ad altissima quota, sorvolano instancabilmente la regione. Un movimento continuo, perpetuo attraversa il capoluogo della Voivodina senza però sfiorarlo e senza scuotere le architetture asburgiche di Jovan Jovanović Zmaj, l’arteria principale attorno alla quale si struttura il centro storico. L’antica vivacità commerciale di Novi Sad, borgo a cui Maria Teresa concesse nel 1748 lo status di “città reale libera”, sembra essersi trasferita in cielo o lungo il fiume e aver assunto una dimensione astratta, non tangibile, a tratti metafisica.

piazza Slobode e via Jovan Zmaj

Per ritrovare la vitalità della città e per accorgersi delle profonde contraddizioni che la animano, bisogna trasferirsi nei quartieri nuovi, lasciarsi il Danubio alle spalle e perdere di vista il cielo che, sul mare come lungo i fiumi, pervade lo spazio e oscura, con la sua chiarità, ciò che accade in terra. Novo Naselje, Sajmište, Satelit, sono solo alcuni dei quartieri che si estendono verso nord e in cui si costruisce di continuo. Novi Sad è un cantiere a cielo aperto: da circa un decennio le guerre balcaniche vomitano sulla Voivodina colonne di profughi, venuti in un primo momento dalla Croazia e dalla Bosnia e successivamente dal Kosovo. Per loro si edificano nuove case, palazzine e condomini.

il quartiere periferico di Novo Naselje

Esattamente come è accaduto in Istria, i profughi hanno snaturato il carattere interetnico della città. Novi Sad, infatti, dimentica a poco a poco la propria dimensione mitteleuropea e si rinchiude in sé stessa: il meticciato che è stato per tre secoli la caratteristica predominante di questo centro urbano si va inesorabilmente perdendo. L’Europa, con i suoi traffici e i suoi movimenti, viene confinata sulle chiatte lungo il corso del Danubio o scorre indifferente in cielo, insieme agli aerei ad alta quota. Novi Sad, e con lei l’intera Voivodina, si allontana sempre di più dal fiume da cui è nata e sulle cui rive per decenni si è incontrata la cultura balcanica con quella dell’Europa centrale. Qui hanno vissuto insieme serbi, croati, ungheresi, russini (o ruteni), i tedeschi che hanno bonificato le paludi della Voivodina trasformandole in una fertile pianura, ebrei, slovacchi, rumeni.

Proprio come in Istria, anche in Voivodina la Storia è stata impietosa: i tedeschi se ne sono andati alla spicciolata dopo il 1945, quando la maggior parte degli ebrei era già stata uccisa o deportata nei campi di concentramento dai nazisti. I rumeni stanno a poco a poco scomparendo e gli ungheresi sono ridotti al 5% della popolazione, nonostante per loro Novi Sad sia stato un centro culturale importantissimo: qui è nata infatti la rivista Új Symposion che, come osserva lo scrittore e giornalista Laslo Vegel, ha dato impulsi rivoluzionari a tutta la cultura magiara durante gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.

composizione etnica della Voivodina

L’antico borgo asburgico, crocevia di culture e di commerci, si è dovuto inginocchiare alla politica di Belgrado degli anni Novanta, durante i quali Milošević ha tolto a poco a poco lo status di provincia autonoma alla Voivodina e al suo capoluogo: come una bestia riottosa lentamente addomesticata, Novi Sad è stata costretta a distogliere lo sguardo dal Danubio e a rinnegare la sua anima mitteleuropea per sprofondare in una prospettiva nazionalistica e balcanica. Osserva ancora Laslo Vegel che la città ha perso l’opportunità di diventare la Trieste dell’est, il topos, il luogo comune per eccellenza in cui ogni nazionalità si sarebbe potuta incontrare per “tradursi” (dal latino traducere, portare al di là) in culture altre. Mentre le grandi capitali europee vanno verso la “creolizzazione” e il meticciato, Novi Sad, che ha conosciuto questo fenomeno con almeno tre secoli di anticipo, percorre la strada opposta e cerca di uniformare i propri cittadini in base a principi nazionali e nazionalistici, a scapito delle componenti nazionali minoritarie.

Un processo deleterio, pericoloso e che potrebbe trasformare la città in una anonima provincia serba. Eppure, nonostante il quadro non sia esaltante, qualcosa dell’antica grandezza sembra resistere: la tolleranza, l’ironia e l’apertura alla diversità degli abitanti di Novi Sad e della Voivodina è sopravvissuta. Da Sombor a Vršac, da Subotica a Sremska Mitrovica fino ai piccoli villaggi di campagna del Banato, nei mercati e nelle piazze urbane, così come nei circoli letterari e nelle aule dell’Università della stessa Novi Sad, si respira ancora lo spirito mitteleuropeo che aleggia nei romanzi di Danilo Kiš.

scorcio della città vecchia

La cultura in questo caso può fare poco e l’ultima parola spetta alle istituzioni. La politica, però, a cominciare dal Partito democratico del presidente Boris Tadić, sembra non aver ancora del tutto compreso che solo l’apertura all’Europa e al mondo permetterebbe a Novi Sad di ritrovare il suo antico ruolo di “luogo comune”, di centro del dialogo e del confronto fra le diversità. Ciò che manca alla Serbia è una classe dirigente che, anziché limitarsi a suonare la grancassa propagandistica del Kosovo, metta l’intera società davanti alle proprie responsabilità, soprattutto quelle legate alle guerre degli anni Novanta.


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