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La parola “inferno”. Viktor Klemperer e Vassilij Grossman

Creato il 26 gennaio 2016 da Dragoval
La parola “inferno”. Viktor Klemperer e Vassilij Grossman

La tragedia dell'Olocausto ha sei milioni di atti- tanti quante sono le sue vittime stimate. Se per essa è possibile individuare un prologo ed un epilogo, questi si possono individuare senza dubbio nell'imposizione della stella (come ci racconta Viktor Klemperer nel suo agghiacciante studio sulla e nell'edificazione e successiva distruzione, nel giro di tredici mesi, di quella micidiale fabbrica di morte che è stato il campo di Treblinka. Vassilij Grossman, che nell ce ne ha reso testimonianza, ha definito al confronto l'inferno immaginato da Dante " uno scherzo innocente di Satana". E il motivo per cui con orrore scriviamo e parliamo di quell'orrore è per l'omaggio doveroso - e doloroso- alle vittime dei boia nazisti.

"Oggi torno a farmi la stessa domanda che ho posto un centinaio di volte a me e alle persone più diverse: quale è stato il giorno più diffìcile per gli ebrei in quei dodici anni infernali?AVVERTENZA-Il brano tratto dal reportage di Grossman sull'inferno di Treblinka è atroce al limite dell'insostenibile. Se pensate che possa essere troppo, per voi,come lo è stato per chi scrive, vi prego, astenetevi dalla lettura. Sul finire dell'inverno del 1943 a Treblinka arrivò Himmler con un gruppo di alti funzionari della Gestapo. [...] Himmler esaminò personalmente il lager; chi lo vide ci ha riferito che il ministro della morte si avvicinò a una delle fosse e la osservò a lungo, in silenzio. I suoi accompagnatori rimasero a una certa distanza mentre Heinrich Himmler rimirava la gigantesca tomba già riempita per metà di cadaveri. Treblinka era la fabbrica più grande del complesso industriale di Himmler. [...]. Prima di lasciare Treblinka, Himmler diede al comando del lager un ordine che lasciò tutti di sasso (l'Hauptsturmfuhrer barone von Pfein, il suo vice Karol e il capitano Franz): procedere seduta stante alla cremazione dei corpi già sepolti, tutti quanti, portare fuori dal lager le ceneri e i resti e spargerli sui campi e lungo le strade. Sotto terra c'erano già centinaia di migliaia di cadaveri, e l'impresa si prospettava a dir poco ardua e complessa. Secondo le nuove disposizioni, inoltre, i corpi delle future vittime non andavano sepolti, ma bruciati direttamente. A cosa si dovevano l'ispezione di Himmler e quell'ordine categorico e importantissimo, tanto da essere impartito personalmente? La ragione era una soltanto: Stalingrado, la vittoria dell'Armata Rossa.[...]L'operazione di incenerimento, però, non ingranava: i corpi non volevano saperne di bruciare (si rilevò, tuttavia, che le donne ardevano più facilmente degli uomini...). Per ridurre in cenere i cadaveri ci volevano molta benzina e molta nafta: somme ingenti di denaro per risultati più che modesti. Il problema sembrava senza via d'uscita. Ma si trovò presto un rimedio. Dalla Germania arrivò una SS, un uomo tarchiato sulla cinquantina, un esperto del settore. Quanti ne ha partoriti il regime di Hitler! Esperti nell'uccidere i bambini, esperti di impiccagione, esperti nella costruzione di camere a gas, esperti nel distruggere scientificamente una grande città in un sol giorno. Si trovò anche un esperto di esumazione e incenerimento di corpi umani. Fu lui a dirigere i lavori per la costruzione dei forni. 1. Si tratta dello Scharfuhrer delle SS Herbert Floss. Si trattava di forni-rogo, in verità, giacché né il crematorio di Lublino, né il più grande crematorio del mondo sarebbero stati in grado di incenerire una tale quantità di corpi in un lasso di tempo tanto breve. [...] Si lavorava giorno e notte. Gli addetti all'incenerimento dei corpi raccontano che i forni ricordavano dei giganteschi vulcani e che il calore - tremendo - bruciava anche i loro visi; le lingue di fuoco arrivavano a una decina di metri d'altezza e colonne di fumo nero, denso e oleoso, si levavano verso il cielo e incombevano nell'aria come una coltre pesante e immobile. La notte quella fiamma alta più dei pini intorno al lager veniva scorta anche dagli abitanti dei paesi limitrofi, a trenta, quaranta chilometri di distanza. L'odore di carne umana bruciata impregnava l'intero distretto, e quando il vento soffiava verso il lager dei polacchi, a tre chilometri, il fetore toglieva il fiato. All'incenerimento dei cadaveri lavoravano ottocento detenuti, più di tutti gli addetti agli altiforni di qualunque complesso metallurgico. Quella fabbrica mostruosa funzionò giorno e notte per otto mesi senza interruzione, ma senza riuscire a smaltire le centinaia di migliaia di corpi umani sepolti. Anche perché nel frattempo il flusso delle nuove tradotte da gasare, - ulteriore incombenza per i forni -, non si interrompeva. Arrivavano treni anche dalla Bulgaria, e le SS e i Wachmànner ne erano decisamente lieti: ingannate dai tedeschi e dal governo bulgaro filonazista, ignare del proprio destino, le vittime portavano con sé preziosi in quantità, cibo gustoso e pane bianco. Fu poi la volta delle tradotte da Grodno e Bialystok, poi toccò a quelle dal ghetto di Varsavia in rivolta, dopo di che arrivò un treno di partigiani polacchi: contadini, operai, soldati. Giunse anche un lotto di zingari della Bessarabia: duecento uomini e ottocento fra donne e bambini. Arrivarono a piedi, con un seguito di carri e cavalli; avevano ingannato anche loro, e quel migliaio di persone si presentò scortato soltanto da due guardie che, loro per prime, non sapevano di condurli a morire. Si racconta che le zingare batterono le mani entusiaste alla vista dell'edificio delle camere a gas, senza sospettare fino all'ultimo che cosa le attendesse. Un vero spasso, per i tedeschi. Le SS infierirono ferocemente soprattutto sui ribelli del ghetto di Varsavia. Sceglievano donne e bambini e, invece di portarli alle camere a gas, li conducevano alle graticole. Lì costringevano le madri impazzite per l'orrore a mostrare ai figli le griglie incandescenti dove, fra le fiamme e il fumo, i corpi si accartocciavano a migliaia, dove i morti parevano riprendere vita e contorcersi, dimenarsi; dove ai cadaveri delle donne incinte scoppiava il ventre e quei bambini morti ancor prima di nascere bruciavano fra le viscere aperte delle madri. Certe scene avrebbero sconvolto le menti dei più temprati fra gli uomini, ma l'effetto era cento volte maggiore su quelle madri che con le mani tentavano di coprire gli occhi ai figli, e i tedeschi lo sapevano. "Che cosa ci faranno, mamma? Bruceranno anche noi?" urlavano i bambini impazziti, correndo a stringersi a loro. Nel suo inferno Dante non le vide, scene come queste. E dopo essersi goduti lo spettacolo, i tedeschi li gettavano davvero tra le fiamme, i bambini.
Tanto io quanto gli altri abbiamo dato sempre una risposta univoca: il 19 settembre 1941. Da quel giorno ci fu l'obbligo di portare la stella di David a sei punte, il pezzo di stoffa di colore giallo, il colore che tuttora segnala peste e quarantena e che nel Medioevo contraddistingueva gli ebrei, il colore dell'invidia, della bile, del male da scansare; il cencio giallo con la scritta nera Jude, la La parola “inferno”. Viktor Klemperer e Vassilij Grossmanparola racchiusa dalle linee intersecantesi dei due triangoli, la parola in caratteri a stampatello che, evidenziati dalla distanza fra l'uno e l'altro e dai tratti orizzontali marcati, simulano la scrittura ebraica.
Troppo lunga questa descrizione? Ma no, al contrario! Semmai mi manca la capacità di dame una descrizione più esatta e penetrante. Quante volte, quando c'era da cucire una nuova stella su un altro indumento (per lo più usato, distribuito dall'apposito magazzino), su una giacca o un cappotto, quante volte con l'ausilio di una lente ho osservato il pezzo di stoffa, le singole particelle del tessuto giallo, le irregolarità della stampa nera: bene, tutti quei quadratini non sarebbero stati sufficienti se avessi voluto collegare a ognuno di essi le torture subite a causa della stella.[...] Ora la ghettizzazione era completa; prima la parola ghetto compariva solo, per esempio, sul timbro postale "ghetto di Litzmannstadt", era riservata ai territori nemici conquistati. In Germania c'erano singole "case degli ebrei" in cui detti ebrei venivano concentrati e che talvolta erano contrassegnate all'esterno dalla scritta Judenhaus, ma queste case sorgevano in un quartiere "ariano" e addirittura non tutti gli inquilini erano ebrei, per cui su altre case a volte si poteva leggere la precisazione "questa casa è judenrein "[senza ebrei]. La frase, bella grossa e nera, rimase a lungo su parecchi muri di edifici, finché questi ultimi non si sbriciolarono sotto le bombe, mentre sparirono molto presto (perché non ci furono più negozi di ebrei e più nulla da arianizzare) i cartelli "negozio assolutamente ariano", le scritte ostili sulle vetrine "negozio ebraico", come anche il verbo "arianizzare" e le dichiarazioni sulla porta del negozio "impresa completamente arianizzata".
Ora, dopo l'introduzione della stella gialla, non aveva più importanza se le case degli ebrei fossero sparse qua e là o riunite in un proprio quartiere, perché ogni ebreo con la stella portava con sé il proprio ghetto, come la chiocciola la sua casa. Ed era anche indifferente se nel suo stabile vivevano solo ebrei o anche "ariani", perché sopra il suo nome sulla porta doveva esserci la stella. Se sua moglie non era ebrea, la targhetta col nome di lei doveva essere separata e recare l'indicazione "ariana".
Ben presto sulle porte del corridoio comparvero qua e là altre targhette, dal tenore agghiacciante: "Qui abitava l'ebreo Weil". Allora la postina sapeva di non doversi preoccupare di trovare il nuovo indirizzo: al mittente sarebbe ritornata la lettera con l'eufemistica annotazione: "Destinatario emigrato [abgewandert]". Ecco che anche "emigrato", in questa particolare e crudele accezione, rientra nel lessico della LTI [Lingua Tertii Imperiim ndr], rubrica ebraica. amarezza di questa: "È un privilegiato", cioè: paga meno lasse di noi, non deve abitare nella "casa degli ebrei", non porta la stella, in certo qual modo può mimetizzarsi...". E quanta superbia, quanta miserabile gioia maligna - sì, miserabile, perché in fin dei conti erano nel nostro stesso inferno, anche se in un girone migliore e alla fine i forni crematori hanno divorato anche i privilegiati -, quanto insistito distacco si avvertivano spesso nelle due parole "Sono privilegiato"! Quando attualmente sento parlare di accuse reciproche fra ebrei, di gravissime vendette, penso subito al dissidio che in genere si creava tra chi portava la stella e i privilegiati.[...]riluce frammisto ai pensieri più cupi. Ma il bagliore più sinistro e fosforico emana dalla "stella nascosta". Secondo quanto prescrive la Gestapo la stella dev'essere portata ben visibile sul lato sinistro della giacca, del cappotto normale o di quello da lavoro, e ovunque ci sia la possibilità di incontrare ariani. Quando in certe giornate afose di marzo uno porta il cappotto sbottonato, con il risvolto ribattuto dalla parte del cuore, oppure tiene stretta una cartella sotto il braccio sinistro o, se è una donna, porta un manicotto, in tutti questi casi la stella rimane nascosta, forse inavvertitamente e per pochi secondi, forse però anche volutamente per poter camminare una volta tanto senza quel marchio. Un funzionario della Gestapo penserà sempre che sia stata nascosta intenzionalmente, la conseguenza sarà il campo di concentramento. Se il funzionario vuole dimostrarsi particolarmente zelante e uno ha la sfortuna di incontrarlo, è inutile che il braccio con la cartella o quello col manicotto pendano fino all'altezza dei ginocchi, è inutile che il cappotto sia tutto ben abbottonato: l'ebreo Lesser o l'ebrea Winterstein hanno "occultato la stella" e, al più tardi tre mesi dopo, da Ravensbrück, o da Auschwitz arrivera al Comune un regolare certificato di morte. La causa della morte vi sarà indicata con precisione, sarà diversa di volta in volta e persino individuale; sarà, alternativamente, "insufficienza cardiaca" o "fucilato durante un tentativo di fuga". Ma la causa della morte è in realtà la stella nascosta.

La prima reazione ad una lettura simile è che l'orrore è troppo per essere concepibile.E' da impazzire. Anche i soldati dell'Armata Rossa che arrivarono a Treblinka nel settembre del'44, e di cui Grossman era al seguito come reporter di

La parola “inferno”. Viktor Klemperer e Vassilij Grossman
guerra, tentarono di aggrapparsi alla speranza che fosse tutto un mostruoso incubo. I resti umani- i capelli biondi di una ragazza, la strada resa nera dalle ceneri che la cospargevano, hanno fatto sì che quella speranza venisse subito distrutta, che ci si arrendesse all'orrore che quello era stato. Per questo Grossman conclude: Dobbiamo tenere a mente che di questa guerra il razzismo, il nazismo non serberanno soltanto l'amarezza della sconfitta, ma anche il ricordo fascinoso di quanto sia facile uno sterminio di massa.E dovrà tenerlo a mente ogni giorno, e con grande rigore, chiunque abbia cari l'onore, la libertà, la vita di ogni popolo e dell'umanità intera.


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