La passione

Da Veripaccheri
LA PASSIONE
Di Carlo Mazzacurati

La passione fa proseliti: da quella miliardaria di Mel Gibson, fino alle rappresentazioni apocrife di Scorsese o profane dei Monthy Python, il mistero religioso è stato affrontato dal cinema con un successo accompagnato da altrettante polemiche. Incurante di tali avvertimenti e di ritorno dalla parziale delusione del suo ultimo film, Mazzacurati ripropone l’ultimo atto del vangelo dilazionandolo all’interno di una cornice in cui trovano spazio alcuni luoghi e tematiche già celebrate nei precedenti lavori.
La provincia, innanzitutto, ancora una volta al centro della scena seppur privata del grigiore padano, i tipi umani, sempre sull’orlo di una svolta radicale ed il più delle volte costretti a ritornare al punto di partenza, l’Italia, ancora una volta terra di frontiera dove vige la legge del più forte (gli indici d’ascolto della diva televisiva hanno la meglio su qualsiasi ipotesi artistica) e dove l’incomunicabilità, sintetizzata dalle difficoltà telefoniche che il personaggio di Orlando incontra nel corso della storia, a suo modo uno dei momenti più divertenti di un film in cui si ride poco, è la condizione esistenziale dominante.
Questa volta però, nel tentativo di sdoganarsi da un eccellente marginalità, e forse anche per togliersi di dosso la malinconia di una cinematografia lievemente monocorde (anche se "La lingua del Santo" rappresentava già un tentativo di cambiamento), Mazzacurati vira verso il grottesco ed il surreale, affidando il suo film alla faccia da povero Cristo di Gianni Dubuois (Silvio Orlando), regista di dubbio talento costretto ad organizzare una rappresentazione della Passione per evitare la prospettiva di una denuncia un po’ forzata, ed alla gentile pesantezza di Giuseppe Battiston, ancora una volta incapace di andare fuori parte, e qui alle prese con l’ennesimo outsider dal cuore d’oro.
Assieme a loro ed in ruoli cameo molto cinema italiano vecchio e nuovo (da Cristina Capotondi a Stefania Sandrelli) ed uno stuolo di facce ed espressioni appese al film come le luci di un albero di Natale, anonime caricature chiamate a commentare con espressioni lievemente deformate i momenti salienti della storia.
Un dolceamaro che pesca anche nel metacinema, con i cittadini del paese che alla stregua degli attori partecipano al martirio cristologico, e personaggi immaginari che dialogano con il loro scrittore, per non dire della riflessione sul cinema radicato nella storia per ovvi motivi e scandagliato nelle retrovie di un cabaret di miserie e nobiltà.
Tanta carne al fuoco, forse troppa per una sceneggiatura che fatica a tenere insieme le diverse diramazioni di una vicenda che rischia la sovraesposizione e finisce per avvolgersi su se stessa, con personaggi che entrono ed escono con motivazioni risibili - il personaggio di Battiston estromesso e poi rimesso in gioco da logiche variabili - comparsate televisive, - Guzzanti ancora imbavagliato dall’appendice televisiva – infiocchettature da commedia boccaccesca – l’amplesso sotto le coperte tra la Sandrelli e Messeri suggellato da uno stacco verso una testa di cinghiale imbalsamato.
Lanciato come un opera divertente e risaiola, La passione, manierata dalle luci pastose dell’immancabile Bigazzi, dispensa pochi sorrisi, incanalandosi verso atmosfere dilatate e pensierose che tolgono ritmo ad una storia bisognosa del contrario.

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