Robert (Antonio Banderas) è un chirurgo plastico di grande fama che vive però quasi del tutto solo e solitario nella sua bella villa. Fino a qui nulla di particolarmente strano. A parte il fatto ovviamente che in una delle camere vive una giovane donna in tutina (Elena Anaya), che sembra essere praticamente rinchiusa e sorvegliata tutto il tempo. Da queste premesse partirà per lo spettatore un bel meccanismo ad orologeria, che sarebbe un peccato spoilerare così, in due righe, come succede altrove, anche perché è proprio questo il punto forte del film che per il resto non risulta essere particolarmente entusiasmante o originale a causa di diverse reminescenze da “Legami!” sempre con Banderas.
La questione che davvero emerge con forza (e se ne trova conferma nei precedenti film di Almodòvar) è come la chirurgia estetica abbia a che fare non solo con il corpo, ma soprattutto con l’identità di una persona, influenzandola, e non per forza in senso positivo. Anche se sotto l’apparenza del classico film un po’ anti-scienza con lo scienziato impazzito, credo che questa pellicola possa offrire molti spunti di riflessione interessanti, a parte le classiche questioni almodovariane omosex e transex.
I graffiti con cui Vera ha tappezzato la propria stanza durante la reclusione.
Non calcolando la già inutile e dannosa divisione (quella sì che è roba chirurgica!) che opera la nostra cultura tra fisico e mente, perversa convinzione che colpisce più o meno tutti, Vera/Anaya non sente più la propria pelle e il proprio corpo come propri. Sente solamente di abitarli dopo le numerose operazioni chirurgiche subite, le quali hanno inciso profondamente, oltre che sull’estetica del suo corpo, sulla sua vita e sulla sua identità sessuale e non, rendendole tormentatissime e disperate, come si può ben vedere dagli angosciosi graffiti della sua stanza, nonché da quelle orride sculturine che crea, piene di bende così simili a quelle che porta indosso. Forse che Almodòvar stia ritrattando su quella famosa frase di Agrado in Tutto su mia madre, per la quale ognuna è tanto più autentica quanto più corrisponde all’idea che ha di se stessa?
Il discorso del trans Agrado (Antonia San Juan) in Tutto su mia madre di Almodovar
E se quell’idea di te stesso/a che hai in qualità di donna/uomo/trans/etc fosse un’idea un po’, scusate l’eufemismo, del cazzo?
O se, peggio ancora, quella cacchio di idea-immagine di perfezione ce l’avesse il chirurgo che ti tiene rinchiuso/a in casa, convinto che con forbici e silicone si possa riottenere autenticamente quello che si vuole, anche qualcuno di perduto, non tenendo minimamente conto (più che dell’anima che è un discorso un po’ paravento secondo me) del fatto che a un certo corpo corrisponde una sua determinata specifica identità?