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La pelle che abito – Pedro Almodóvar, 2011

Creato il 13 gennaio 2013 da Paolo_ottomano @cinemastino

la_pelle_che_abitoLa domanda che ci si potrebbe porre guardando questo film è: che limite sono disposto a oltrepassare per vendicare un torto, quando ogni giorno c’è qualcosa che mi ricorda la mia sventura?

Il chirurgo plastico Robert Ledgard conduce esperimenti per creare un nuovo tipo di pelle umana, resistente alle aggressioni di qualunque genere: da quando ha perso la moglie, carbonizzata in un incidente d’auto e poi suicida, questa ricerca lo ossessiona. Si è praticamente rinchiuso nella sua villa-clinica El Cigarral, dove prima operava regolarmente. Dopo anni di lavoro, Robert riesce a sintetizzare una pelle sensibile al tatto come quella umana, ma molto più resistente: immune al fuoco, per esempio. Nessuno scrupolo accompagna il suo lavoro solitario, condiviso in realtà con una sola persona: Marilia, la donna che l’ha cresciuto. Gli manca, però, una cavia su cui testare i risultati dei suoi studi…

Il modo in cui è tessuta la trama, che nasconde molte cose all’inizio del film e ne svela altrettante alla fine, è il meccanismo ideale per accrescere la suspense. Indizi disseminati nei dialoghi o in azioni insignificanti a prima vista, si rivelano poi cruciali per rileggere la storia all’indietro e pensare: “Certo, è logico!”. Chi è realmente Vera, il topo che Robert tiene nel suo laboratorio e che sorveglia notte e giorno, come se volesse carpirne la sua identità e ricordare a se stesso che non è nient’altro che una sua creazione?

La pelle che abito è una storia torbidissima, morbosa, fatta di sangue, sesso, pulsioni primarie, affrontate da nomi eccellenti del cinema: da Lang a Hitchcock a Dario Argento, per citare solo i più noti. La fotografia, la regia ma soprattutto le musiche accompagnano egregiamente l’inquietudine che cresce. La fotografia è infatti cupa, i colori sono opachi per la maggior parte del film: si schiariscono solo nei brevi momenti di serenità, apparente. La regia è curata nei dettagli, dai quali spesso nasce l’inquadratura per poi allargarsi all’intero ambiente ripreso: si notano così altri dettagli, alcuni un po’ scontati (i quadri con soggetti senza volto alla De Chirico). La colonna sonora, poi, è un crescendo appropriato di inquietudine-mistero-sospetto-certezza.

Resta solo una considerazione, che poche storie riescono a evitare: sarebbe stato più affascinante, Robert, se non avesse avuto il fantasma della moglie e della figlia a guidarlo ciecamente nella sua discesa all’inferno?



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