Per anni ho temuto che in me come si è soliti dire albergasse un insidioso Berlusconi pronto a tirar fuori la testa come quei pupazzi con la molla, estraendo da certe profondità egoismo becero rancore avidità
In questi giorni invece temo Tremonti in me, così che un modesto risveglio delle borse mi fa sentire più tranquilla e compiaciuta. A me succede per mezzo minuto con la tazzina del caffè in mano mentre sbadiglio ascoltando il TG della sette appunto alle sette del mattino.
Certo il danno della “cultura” del profitto finanziario ne ha fatti di danni: ci consoliamo con l’ajetto per poi “precipitare” nello sconforto seguendo la borsa di Tokio, facciamo come se avessimo un gruzzoletto di CCT, caschiamo nella trappola senza groviera che hanno allestito per noi, accontentandoci dell’allegoria di una ripresa , di stare a guardare i segnali di fumo solo simbolici e immateriali che si inviano i burattinai della turboeconomia. Nell’età della tremenda incertezza, della burrascosa demoralizzazione e dell’avidità planetaria siamo affamati di rassicurazione. Anche le più inique, alle quali molti sembrano voler credere: che gli ignorati siano un problema di ordine pubblico cui basta togliere l’amplificatore perché tornino nel buio, che il problema del lavoro in un sistema senza lavoro, non sia più tale limitando i diritti e che a forza di confinare la democrazia se ne possa poi fare a meno.
Alla fine sono riusciti nell’impresa di far regnare la necessità per limitare il regno della libertà. Come se fosse spiacevole certo ma indispensabile tagliare pensioni conquiste garanzie potere d’acquisto stipendi e l’unico terreno negoziabile, sempre altrove da noi, fosse quello temporale. E dire che dovremmo reclamare ben altre sicurezze: che una grande impresa, buttiamo là un nome, la Fiat, proponesse un piano di sviluppo in patria rispettoso dei diritti dei lavoratori, che la manovra economica del governo collocasse in testa misure di lotta all’evasione anziché evadere dal rispetto della Carta e dai suoi capisaldi di equità, legalità e uguaglianza.
Ma il tremonti miniatura sta ben saldo intanto nella testa di chi ci governa ma anche di chi ci informa e finge che la Marcegaglia sia un parte rappresentativa del “sociale”, che gli interessi secondo Trichet siano anche i nostri interessi e che una impennata della Borsa sia se non una vera scialuppa certo un incoraggiante guscio di noce nel mare in tempesta. E forse sono convinti che si possa guadagnare la virtù attraverso il vizio, che in tempi di arricchimento spavaldo e di precipizi etici, di opulenze di pochissimi e di ristrettezze di moltissimi, l’economia di mercato volente o nolente si pieghi a costruirsi delle convinzioni “morali”, o almeno per dirla con Hisch si comporti come le avesse. È che una volta c’erano le avanguardie, le èlite. A loro spettava lungimiranza sia pure inascoltata e piglio critico. Adesso ci sono i “prominenten”, quelli che dalla società hanno avuto tanto: ricchezza benessere potere e che trasferiscono nella dimensione pubblica e politica il peggio che c’è in loro e che testimonia del peggio “umano” o sociale: volgarità, incultura, irresponsabilità, rapacità. Trovando larghi consensi tra chi li invidia e al tempo stesso li emula. E anche la critica è diventata così aerea e cauta che ci risparmia e si esime perfino dagli appelli con le firme in calce preferendo un delicato Aventino o una riflessiva Capalbio. Purtroppo non aveva ragione Robespierre e il popolo incorrotto non si innalza al ruolo di dio in terra ornato di assoluta integrità. Le virtù politiche si trovano sempre più spesso tra i derelitti, i dimenticati, i marginali i clandestini nei cui confronti i democratici provano oscura vergogna ma che non imitano per quanto riguarda legalità e solidarietà. E per quanto riguarda la morale, parola elusa quanto le tasse preferendole la “politica”, come se fosse disonorevole dire che l’evasione ad esempio è un crimine contro la società e dunque anche un affronto morale, una slealtà, un disonore. Così come la lesione di diritti del lavoro, l’erosione della bellezza e del paesaggio, lo schiaffo all’autodeterminazione dei cittadini e alle loro inclinazione e scelte di vita e di morte. Regna una certa livida ipocrisia che ci fa tutti complici di noi stessi, i bravi italiani buoni e onesti che si sono nutriti e consolati del loro “ben operare” senza preoccuparsi di trasformarlo in movimento, in motore di trasformazione morale e politica collettiva delegando lo sdegno alle requisitorie di chi di sdegno vive nella condivisione redditizia del potere. Non basta essere per bene, la volontà più che buona, oggi deve essere responsabile e disubbidiente, si anche cattiva se cattiveria vuol dire tenace ricerca del meglio anche in noi.