La perduta Carcosa

Creato il 29 agosto 2013 da Theobsidianmirror
Lungo la spiaggia onde di nubi si frangono, i Soli gemelli s’affondano nel lago, le ombre si allungano in Carcosa. Strana è la notte in cui sorgono stelle nere e strane lune ruotano nei cieli. Ma ancora più strana è la perduta Carcosa. Canzoni che le iadi canteranno, là dove s’agitano i cenci del Re, muoiono inascoltate nell’oscura Carcosa. Canto dell’anima mia, la mia voce è spenta. Anche tu muori, mai nato, come una lacrima mai pianta s’asciuga e muore nella perduta Carcosa.
Sono trascorsi ormai oltre cent’anni dal giorno in cui il nome di Carcosa è riemerso dall’oblio. Carcosa, la città dimenticata, la città sulle rive dal lago Hali, il lago dove si riflettono i Soli gemelli, dove la notte è rischiarata da strane lune e il cielo è punteggiato da stelle nere. Mari d’inchiostro sono stati versati, fino ad oggi inutilmente, per svelarne i misteri. Giorni e notti sono trascorsi nella vana ricerca della perduta Carcosa. Notti e giorni sono stati spesi nel vano tentativo di incrociare una parola, una frase rivelatrice, di scovare la pagina che si nasconde nella vasta letteratura che è giunta fino a noi.
In origine ci fu il misterioso “Secret Book of Hali”, riportato alla luce da Ambrose Bierce, un misantropo crudele e visionario che osò citarne alcuni brani, il più celebre dei quali è posto come epigrafe del suo forse più famoso racconto “An Inhabitant of Carcosa”.  Diversi anni dopo la leggenda ritornò alla luce, ancora una volta sotto forma di un misterioso volume, da alcuni definito “maledetto”, imperocché  chiunque si azzardasse a leggere il volume, si diceva, sarebbe stato condotto ineluttabilmente alla pazzia e alla morte.  Il titolo con il quale è conosciuto, alquanto enigmatico, era “The King in Yellow”: di esso ci parlò un altro grande pioniere della letteratura fantastica, Robert W. Chambers, il quale, nelle sue opere, ne riportò alcuni estratti senza però addentrarsi troppo nelle sue pericolose pagine. Anche Howard Phillips Lovecraft giunse in seguito a farne breve menzione, seppure tenendosene prudentemente lontano, nel suo racconto “The Whisperer in Darkness”: un collegamento nient’affatto casuale che ci rivela, senza lasciare alcuno spazio al dubbio, che anche i ben più noti “miti di Cthulhu”, nati dalla fantasia e dalla penna del solitario di Providence, affondano le proprie radici in una mitologia ben più antica.
Una mitologia che, in questo articolo introduttivo e in quelli che seguiranno nelle prossime settimane, mesi, anni, chiamerò semplicemente “The Yellow Mythos”. Lo scopo di questa serie di articoli è duplice: da una parte è mia intenzione mettere un po’ d’ordine nella montagna di microscopici tasselli, sparsi un po’ ovunque, che compongono il puzzle; dall’altra parte mi piacerebbe poter fare un passo avanti, magari giungere a delle conclusioni o a delle soluzioni. Non so nemmeno io dove mi porterà questa ricerca, ma so perfettamente da che parte posso cominciare, vale a dire dai sopracitati signori Chambers e Bierce.
Fu proprio un libro di Ambrose Bierce che fece il suo ingresso sullo scaffale di casa mia qualcosa come una quindicina di anni fa. Era un minuscolo libro edito da Newton (la gloriosa serie di tascabili “100 pagine, 1000 lire”) intitolato “I racconti dell’oltretomba”. Un libro che rimase per anni ignorato a prendere polvere e a farsela periodicamente togliere di dosso. Un libro nel cui interno giaceva, incapace di rivelarsi, un brevissimo racconto dal titolo “Un cittadino di Carcosa” (il già citato “An Inhabitant of Carcosa”, appunto).  Parecchi anni dopo, venuto tutto sommato casualmente in possesso di un libro di Chambers, scoprii un incredibile collegamento con quel vecchio tascabile. Era un mondo che ignoravo completamente e che scoprivo giorno dopo giorno. In breve tempo me ne appassionai, trovai ulteriori collegamenti, iniziai a fantasticare e alla fine… eccomi qui.
Il “Libro segreto di Hali”, così come “Il re in giallo”, così come i “Manoscritti Pnakotici” e l’assai più noto “Necronomicon”, l’esecranda opera attribuita all’arabo pazzo Abdul Alhazred, sono ormai comunemente catalogati sotto il nome di “Pseudobiblia”, ovvero quei falsi riferimenti bibliografici che, specialmente tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, erano frequentemente utilizzati nella letteratura fantastica. Citarli tutti sarebbe un’impresa titanica (e in ogni caso un tentativo nemmeno troppo originale), per cui vi rimando semplicemente a questa lista, se proprio siete curiosi.
Ma gli pseudobiblia non sono banalmente solo un’invenzione letteraria: può definirsi pseudobliblium anche un libro che, sebbene sia esistito in passato, oggi non esiste più, perché è andato perduto o distrutto fino all’ultima copia, oppure un libro rarissimo, i cui unici esemplari sono forse conservati gelosamente da anonimi collezionisti e la cui sopravvivenza (la loro stessa esistenza), essendosene perse le tracce da tempo,  è ormai divenuta incerta. Quanti sono i libri che nei secoli hanno seguito questa sorte? Centinaia? Migliaia? Forse di più. Quanti libri sono andati distrutti, cancellati per sempre dalla storia, perché appartenuti ad una cultura scomparsa o perché ritenuti pericolosi e messi al bando a causa del loro contenuto? E se anche “Il Re in giallo” fosse uno di questi? Se dietro i misteri di Hali, dietro le leggende del ciclo di Hastur, dietro il destino della perduta Carcosa, dietro il bizzarro “Yellow Sign" e dietro la misteriosa “Pallid Mask” ci fosse invece qualcosa di cui l’umanità si è dimenticata? Salomone disse: “Non vi è nulla di nuovo sulla Terra” (Eccl. 1:9). Platone immaginò che ogni conoscenza non fosse che un ricordo (innatismo); di conseguenza la frase di Salomone significherebbe che “le cose nuove non sarebbero altro che cose che abbiamo dimenticato” (Francesco Bacone).


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