D’autunno e d’inverno rammento spesso quel che rappresentava per me, ormai tanti anni fa, una foglia rossa.
Una rarità, un tesoro. Si raccoglieva e si custodiva tra le pagine di un libro: un libro grande, adeguato, come il dizionario o un volume dell’enciclopedia. Se era piccola si poteva racchiudere tra due fogli di carta assorbente e infilare in un romanzo già finito, amato, dimenticarsene e poi ritrovarla dopo anni o lustri.
Una foglia rossa era una valanga di emozioni e desideri, concatenati, inarrestabili. Il dono della conoscenza dell’ “estate indiana” sembrava essere stato confidato solo a me, solo io potevo capire gli aceri: per tutto il resto del mondo le foglie erano verdi o marroni. Raramente di un giallastro bilioso, malato o moribondo.
Una foglia rossa portava dietro di sè quieti boschetti adagiati su manti di foglie dorate, solitarie pozze d’acqua fresca, ponticelli di legno, viottoli e crocicchi, scoiattoli, strani sassi lasciati da creature fatate, tane di animali, ripari per gli gnomi. E casette, piccole, calde casette con la finestra sopra l’acquaio da cui osservare i primi fiocchi di neve, camini accesi, tappeti morbidi, gatti ronfanti, profumo di torte e biscotti nel forno a legna, fruscio di carta da lettere, un giardinetto senza pretese, frittelline, sciroppo d’acero e marmellate.
Coccolata, accudita e al riparo, e le Fate per amiche: i desideri di ogni bambino.
Oggi cos’è una foglia rossa per me?
Il simbolo di una moda spietata e avida, del conformismo più deprimente, di un parassitismo estetico criminale. Criminale, sì, perchè uccide la Bellezza.
Una foglia rossa rappresenta oggi la moda del foliage, di volta in volta pronunciato alla francese o all’inglese, scegliete voi.
I giardini autunnali non hanno attrattive se non contengono piante dal vistoso foliame dorato e porporino. Fogliame dorato, graminacee, capsule di semi, bacche: ecco composto un giardino alla moda, riprodotto in milioni di esemplari buoni per le riviste più o meno patinate e per scalare la classifica dei blog.
Altro che moplen.
Un paesaggio dominato dai toni severi del verde e del grigio, come quello calabrese fatto di uliveti e agrumi, rocce, rivi in secca, viene immediatamente classificato come “poco attraente”.
“Foliage in villa”, titolava Gardenia qualche mese fa. Ma certo. E dove altro si potrebbe consumare questo potlatch di labbra rifatte, di cappellini, di esclusività?
Foto di Fiori&Foglie, il blog di giardinaggio del TGcom
Gli aceri, che per me hanno sempre simboleggiato un paesaggio “altro”, una campagna appena toccata da mani sapienti, rorida, verde, fresca, domestica, antropizzata, fatata, “narrativa”, sono diventati un sottoinsieme del giardinaggio, non diversamente da come è successo per le Hemerocallis, ed era già avvenuto per orchidee, bonsai, palme e piante tropicali. Tale è la distinzione tra i cultori di questo o quell’insieme, che può accadere (anzi, accade spesso), che chi sa tutto di una pianta, ignori completamente le nozioni basilari che riguardano le altre.
Un mulo con basto e paraocchi è facile da dirigere, e così la nostra società ci vuole sottoacculturati e incapaci di autodeterminazione.
I media ne sono il veicolo: il numero di ottobre non tira? Mettiamoci il foliage, vedrai come pompa, dopo. E dietro a questo mulo la sequela di giardinieri, blog e libri che delirano su una foglia rossa.
E addio Poesia, e addio Bellezza.
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