Venezia 1106 D.C. Edgardo, primogenito di una famiglia nobile, è un chierico gobbo e deforme che ha scelto di diventare amanuense per fuggire dal mondo, in un’epoca in cui la deformità è considerata un segno del diavolo. Ma un nuovo dramma si profila per lo scriba, ora che è diventato un grande esperto nell’ “arte di disegnare le parole”: sta perdendo la vista. Per uno che ha scelto di dedicare tutta la vita alla scrittura non può esserci dramma peggiore. Perciò lascia la sua abazia e si reca a Venezia in cerca della fantomatica “pietra per gli occhi” dai famosi vetrai veneziani.
La Venezia che scopriamo attraverso gli occhi – miopi – di Edgardo non è la splendida città che diventerà un secolo più tardi, ma un posto infido e pericoloso, dove le case sono di legno col tetto di paglia perché il terreno molle e fangoso non regge le fondamenta e, a parte la Basilica di San Marco (ancora in costruzione), sono pochi i palazzi di mattoni. Venezia è umida, sporca, l’acqua s’insinua ovunque e tra i miasmi nauseabondi della laguna emergono cadaveri con gli occhi strappati che nelle orbite hanno biglie di vetro color rubino.
Il chierico, abituato alla vita ritirata in convento, si ritrova in una specie di inferno che però gli piace moltissimo. Ecco cosa vede appena arrivato:
“Entravano e uscivano dalle botteghe carichi di roba, discutevano, urlavano. Un garzone correva inseguito dalle urla di quello che doveva essere il padrone. I cavalli si liberavano a più riprese senza un minimo di decenza dei loro escrementi. Dalle finestre dei primi piani si materializzavano braccia anonime che rovesciavano sulla strada liquami nauseabondi senza nessun preavviso. Dal tetto di una casupola un ragazzo appena alzatosi pisciava sonnolento sulla loggia della casa vicina. Avanzare senza incorrere in spiacevoli sorprese era un’impresa assai ardua. Ognuno saltellava come poteva da una zolla ancora netta all’altra e l’impressione che se ne aveva era di una città popolata di grilli”.
Come nasce questo giallo storico?
Nasce da una grande passione per Venezia e per il Medio Evo. Il Medio Evo prima ancora di Venezia, è un periodo storico che mi ha sempre molto affascinato. Non so dirti perché. Forse per l’aspetto un po’ fantastico, un po’ grottesco, un po’ primitivo. Poi frequentando Venezia e cominciando ad amarla perché ci andavamo spesso per ragioni di famiglia, ho cominciato a chiedermi come poteva essere allora. Mi dava fastidio che fosse sempre descritta nel massimo del suo splendore – la Venezia cinquecentesca, o quattrocentesca, dei grandi palazzi, piena di ricchezza e splendore – quando invece nessuno parlava mai di come è nata e della lotta che hanno dovuto sostenere gli abitanti per creare questa città. Allora ho cominciato un po’ a indagare. Sono penetrato in quel mondo ed è stata una riscoperta di Venezia e di tutta la laguna, delle difficoltà di recuperare terre, di lottare contro il mare, contro i fiumi che sfociavano in laguna, di tutto il lavoro che Venezia ha fatto per creare questa città piano piano, con una gran fatica.
Ci sono diversi temi che rimandano a Il nome della rosa: gli amanuensi, lo scriptorium, il problema della diffusione della cultura e anche le pietre per gli occhi. Ti senti debitore nei confronti di Eco?
Assolutamente sì perché Eco è stato un punto di riferimento a partire dalle profondissime conoscenze storiche: la precisione dei riferimenti storici mi ha ossessionato. Ho cercato anch’io di unire la credibilità storica con una parte di invenzione romanzesca che però rispecchiasse tutto l’immaginario del Medio Evo, per esempio l’immaginario della mostruosità, degli animali mostruosi, delle superstizioni, della grande religiosità e spiritualità che c’era e che permeava completamente la vita di tutti. Tutti erano molto ispirati e legati alla divinità. I temi di Eco sono i temi di quel periodo. Il nome della rosa è un po’ posteriore, infatti lì ci sono già gli occhiali, diciamo che sono già stati inventati. Qui ancora no. Per quanto riguarda il tema della scrittura, le uniche persone che scrivevano in quel periodo erano gli amanuensi. Non ce n’erano altri, non c’erano le università. Nessuno sapeva scrivere, se non i chierici e i monaci. Perciò uno scrittore che sta perdendo la vista poteva essere solo un monaco amanuense.
“Occhi cavati, mani tagliate, impiccati, donne arse al rogo erano spettacoli all’ordine del giorno”. Nel 1100, molto più di oggi, erano abituati alla morte, al dolore, alla crudeltà. La morte era normale e accettata nel Medioevo.
Assolutamente sì, infatti questo rapporto medievale con la morte è uno degli aspetti che più mi hanno colpito e che più appartengono al romanzo. C’era una concezione della vita molto labile, un po’ perché si moriva molto e molto presto, un po’ perché condizioni di vita terribili portavano facilmente a morti premature, poi si viveva in una grande incertezza per le guerre, quindi non c’era, come oggi, un rifiuto della morte per cui non se ne deve parlare, o si deve essere isolati nel momento della morte. Invece la morte era legata a una profonda fede che tutti avevano, anche quelli che tagliavano le mani, che squartavano, che facevano le cose più tremende. Anche questo avveniva con un grande riferimento e con una grande ispirazione divina. Io continuo a ripensarci perché non riesco ancora a capire come potessero coincidere questi due aspetti.
Partenza di Marco Polo da Venezia, fine XIV secolo
Però l’hai raccontato bene, ad esempio quando c’è quel monaco che viene portato in giardino a morire e lasciato lì steso per terra che si lamenta: è scioccante.
Anche la storia delle reliquie è fondante. La reliquia aveva un valore simbolico che noi oggi non riusciamo a capire. Per questo c’era tutto un mercato delle reliquie, anche false. La fondazione di San Marco avviene solo nel momento in cui riescono a recuperare il corpo di San Marco che era stato trafugato. Così narra la leggenda. E’ un atto simbolico che fa nascere la città. Leggevo che fino al 1300, 1400, i nobili più importanti quando morivano si facevano tagliare a pezzi e poi ogni pezzo del corpo veniva seppellito nelle cittadine di loro possedimento perché questo rendeva quei luoghi sacri e inviolabili.
Sono riti di fondazione.
Che davano il senso della loro presenza anche nella morte.
Scrittore, drammaturgo e sceneggiatore, hai collaborato con diversi registi italiani, tra cui Silvio Soldini, Marco Pontecorvo e Liliana Cavani. Ti senti più romanziere o sceneggiatore?
Io ho cominciato scrivendo teatro. Poi mi sono messo a scrivere letteratura senza riuscire a pubblicare, in modo anche disordinato. Ho fatto lo sceneggiatore perché mi ci sono trovato quasi casualmente e l’ho fatto con molta passione. Sono due modi di lavorare molto diversi. Lo sceneggiatore fa un lavoro di gruppo. Lavori sempre con qualcun altro, con il regista, o con altri sceneggiatori, mentre invece scrivere un romanzo è un lavoro di grande solitudine. Io credo che le due cose possano appoggiarsi l’una con l’altra. Nel romanzo sei libero, sei totalmente libero. Se scrivi delle stupidaggini è solo colpa tua. Nel cinema invece ci sono tanti passaggi. Forse scrivere libri è la cosa che amo di più perché sono libero. Una storia così oggi al cinema, in Italia, sarebbe impensabile.
Le serie tv ti piacciono?
Sì, ho anche lavorato ad alcune serie in passato. Quelle italiane non mi fanno impazzire, anche se mi è capitato di scriverle. Le ultime serie americane sono dei grandi film. Sono molto più vicine alla letteratura delle serie del passato. Stavo pensando al rapporto di una serie come House of Cards, ma anche Breaking Bad, con scrittori come Dickens. Gli sceneggiatori americani citano tantissimo Dickens come punto di riferimento nella costruzione di queste serie perché loro pensano di raccontare, non una serie a puntate, ma un grande romanzo che poi viene suddiviso. Quindi è come tornare al grande romanzo ottocentesco, in cui c’è un protagonista tipo Oliver Twist. E’ come tornare ad un racconto molto lungo con tantissime avventure, che sia la storia di un potente politico, oppure quella di un povero professore malato di cancro. Quindi c’è stata una grossa svolta nella serialità non italiana.
L’hai visto Olive Kitteridge?
Solo una puntata. E’ bello?
E’ bellissima la serie e bellissimo anche il romanzo di Elizabeth Strout che sto leggendo e che tra l’altro ha vinto il Pulitzer.
Ci dici un libro, una serie e un film che porteresti nella capsula del tempo?
Io amo molto un certo cinema americano un po’ vecchiotto, alla Billy Wilder per intenderci. Un film che continuo a rivedere è A qualcuno piace caldo e me lo porterei perché mi mette allegria. Poi come serie ti dico Breaking Bad perché la sto rivedendo ed ha un forte impatto visivo. Siamo tornati a fare le serie con l’impatto visivo che c’era negli anni Settanta, prima del cinema di parola, quello fatto di grandi immagini. Infatti se tu vedi la serie dall’inizio ti rendi conto di questa forza visiva.
Sì, l’inizio di Breaking Bad è straordinario. E un libro?
Uno dei primi libri che ho letto quando ero ragazzino è un libro di Alain-Furnier, Il grande Meaulnes. Un libro che mi è rimasto perché è un libro dell’adolescenza.
Quali generi preferisci?
La commedia mi piace tantissimo, ma anche il mistery.
Libri di carta o ebook?
Tutti e due.
Leggi un libro alla volta, o tanti contemporaneamente?
Spesso ne leggo due insieme, magari un romanzo e un saggio.
Quali autori preferisci?
I grandi autori di avventure tipo Stevenson. Sono un grande amante di Kafka. Gli autori russi mi piacciono tantissimo, come Gogol’. Mi piacciono molto gli autori che non sono troppo realistici, Dostoevskij, Nabokov, autori che sanno avere dei guizzi di invenzione fantastica dentro al realismo.
Hai qualche tic quando scrivi?
Scrivo a mano e uso sempre una penna stilografica della stessa marca. E’ una cosa che è nata quando ero ragazzino perché a scuola c’era un mio amico che aveva queste penne stilografiche che io gli invidiavo tantissimo. E’ una marca americana che si chiama Sheaffer che ha il pennino a nido di rondine, incastonato nella penna. Da allora scrivo sempre con questo tipo di penna e ogni volta che finisco un romanzo me ne compro una nuova. Adesso non so più come fare perché non le fanno più.
Che ne pensi della letteratura italiana contemporanea? Chi salveresti?
Leggo tanti autori contemporanei e devo dire che ci sono dei bravi scrittori di generi diversi. De Cataldo, che è anche un amico, è un autore che a me piace. Lia Levi è una scrittrice che amo. Anche Veronesi mi piace molto. Preferisco forse gli autori che raccontano storie. Non mi piace tanto la letteratura nostra che si guarda l’ombelico, che racconta troppo di sé. Mi piacciono gli scrittori che raccontano delle storie.
Qual è l’ultimo romanzo bello che hai letto e che ci consigli?
E’ Stoner il più bel libro che ho letto negli ultimi anni.
Sei un viaggiatore, o un amanuense?
Un amanuense credo.
Se potessi scegliere tra volare, essere una donna o diventare invisibile, cosa sceglieresti?
Volare senza dubbio.
Perché?
Ho fatto alcuni sogni in cui volavo ed è davvero un’esperienza unica. Ti sembra che il corpo non ci sia più e hai una libertà incredibile. E’ come un salto in un’altra dimensione.
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I romanzi di Roberto Tiraboschi sono pubblicati da E/O. Grazie a una apprezzabile iniziativa dell’autore, c’è la possibilità di ascoltare i primi tre capitoli de La pietra per gli occhi. Qui sotto trovate il primo capitolo.