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La Pirateria Barbaresca nei secoli XVI – XIX

Creato il 14 settembre 2010 da Cultura Salentina

di Vincenzo Scarpello

Una classificazione che possa definire il vasto insieme di operazioni navali, di attacchi e di incursioni che movimentavano le acque e le coste mediterranee nel corso dei secoli XV-XIX può essere tentato solo a partire dalla fine del XV secolo, allorquando l’endemica piaga della pirateria, che poteva vantare “nobili origini” sin dai tempi dei fenici e del Bellum pyraticum, condotto da Gneo Pompeo Magno, assunse una diversa fisionomia, in relazione dell’utilizzo strategico che di essa fece l’Impero Ottomano.

Prima di allora flottiglie di pirati colpivano in maniera disorganica ed indifferenziata le navi commerciali che solcavano il Mediterraneo, prendendo prigionieri (soprattutto se personaggi illustri) e pretendendo somme per i riscatti.

Talora questi predoni del mare arrivavano anche a compiere piccole scorrerie nell’entroterra, devastando con brevi ed intense azioni di cavalleria leggera masserie e villaggi costieri privi di protezione. Dalla fine del XV secolo in poi alla figura del pirata si sovrappose e si sostituì quella del corsaro, essenzialmente gli stessi individui che facevano uso dei medesimi sistemi, connotati da un “plus” che ne attribuiva un’identità strategica differente.

Questo “plus” consisteva nell’autorizzazione, o addirittura nell’incarico, da parte di un governo regolarmente costituito, consistente il più delle volte in una lettera di marca, con la quale il sovrano dava facoltà ad un capo corsaro di arrembare con una nave armata in corsa i mercantili nemici in nome di diritti, veri o falsi che fossero, che questo governo rivendicava su una data zona di mare o sulle navi di un altro Stato. In realtà non era sempre possibile distinguere con precisione le due figure essendo l’una derivazione dell’altra ed importando relativamente ai comandanti dei mercantili che i pirati agissero in conto proprio o su ordine di un Sovrano.

Questo fatto interessava più agli stati marittimi, che, una volta individuato il paese che reclutava i corsari, potevano regolarsi di conseguenza apprestando le relative contromisure diplomatiche o di ritorsione militare. In verità il principale Stato che utilizzava questo strumento a danno dei suoi nemici ed a beneficiare dei tributi dei pirati consistenti in parte dei bottini, fu l’Impero Ottomano, che giunse ad annoverare tra i comandanti della propria flotta, i Kapudàn Pascià, nel “secolo d’oro della corsa”, il XVI, corsari come Ariadeno Barbarossa e Sinam Pascià.

I più valenti comandanti corsari erano generalmente cristiani rinnegati (come lo erano i giannizzeri sulla terraferma), che venivano rapiti dai pirati da fanciulli e da questi ultimi allevati ai cimenti del mare.

Ciò costituisce un ulteriore conferma del fatto che l’istituzione militare ottomana dipendesse, nei suoi reparti di elite, non solo da un reclutamento, ma anche da una “mentalità” occidentale, salvo il fatto che poi i fanciulli divenivano i più fanatici assertori della grande Jihad islamica. Questi “giannizzeri” del mare arrivarono a costituire una vera e propria forza navale proprio nel corso del XVI secolo, allorquando riuscirono ad esprimere una strategia volta a bloccare le marine militari avversarie e proiettare sulla terra consistenti contingenti.

Anzi, nel corso del secolo, soprattutto con Ariadeno Barbarossa, i corsari si sovrapposero e si sostituirono alla flotta dell’Impero Ottomano, che stava conducendo in quegli anni una politica di espansione territoriale e di predominio geopolitico nel Mediterraneo e nei Balcani, pretendendo di sostituirsi allo sconfitto Impero Romano d’Oriente, al quale si sarebbe presto dovuto aggiungere il predominio anche su quello d’Occidente, compresa la Roma dei “nazareni”, la leggendaria mela rossa, che faceva il paio con la mela d’oro, Vienna, che gli ottomani tentarono invano di cogliere.

La pirateria e la guerra di corsa si sviluppano originariamente lungo passaggi obbligati. A Levante, le piccole isole del mare Egeo e dell’Asia Minore, le coste della Turchia e della Croazia; a Ponente, le isole Baleari, le isole siciliane, quelle dell’arcipelago toscano, le coste della Sardegna, della Corsica e quelle maghrebine. La modalità operativa che i pirati prevalentemente adottavano nel corso delle scorrerie rispondeva ad un canone strategico prestabilito, consistente in un iniziale appostamento in un’insenatura o dietro ad un isolotto, nell’attesa del passaggio della nave bersagliata.

Con un’azione navale rapida, facilitata dall’utilizzo di navi a remi molto agili e con maggiori capacità di manovra (fuste e galere), veniva tagliato il passo alla nave-preda sulla quale si tentava poi l’arrembaggio. Impadronitisi delle mercanzie, delle vettovaglie, quando non dei rifornimenti militari, i corsari prendevano prigioniero l’equipaggio, che veniva condotto nei “bagni penali” di Barberia, dove i malcapitati prigionieri venivano usati come schiavo, nell’attesa di un riscatto da parte dei paesi dai quali l’equipaggio proveniva. Le operazioni navali avevano inizio prevalentemente con l’acquietarsi delle perturbazioni invernali, coincidenti con l’aprile e maggio di ogni anno, concludendosi col ritorno di esse nei mesi di ottobre.

Le acque calme del Mediterraneo e lo spirare di poco vento, consentivano alle flotte corsare, che utilizzavano prevalentemente navi a remi, di avere il sopravvento sulle lente navi commerciali e, soprattutto nei secoli XVII e XVIII, sui velieri delle flotte cristiane.

La Pirateria Barbaresca nei secoli XVI – XIX

Il corsaro Dragut

Contro i corsari gli stati colpiti utilizzarono una differente strategia: dapprima predisposero grosse flotte, che davano la caccia ai navigli nemici, ma che avevano l’inconveniente di non poter rimanere a lungo in mare, a causa degli elevati costi di mantenimento, e di dover puntare su di un obiettivo alla volta, dovendo essere contemporaneamente necessaria la massima precisione nello spionaggio, quella che oggi chiameremmo “intelligence”, e la fortuna nella precisa individuazione della flotta corsara.

Le campagne navali degli stati cristiani non potevano quindi in nessun caso concludersi con un nulla di fatto, mentre quelle dei pirati, male che andasse, tornavano comunque nei porti con le navi con la stiva carica di prede e di schiavi. In un secondo momento, alla fine del XVI secolo, una seconda strategia fu adottata, mediante la costituzione di Ordini cavallereschi che adottavano in mare una vera e propria controguerriglia, utilizzando la medesima strategia dei corsari (tra l’altro tali ordini facevano uso di un tipo di naviglio che aveva le stesse caratteristiche di quello dei pirati) e compiendo incursioni nei porti dai quali le navi ottomane partivano.

Nell’ultima fase prese vigore, accanto al controllo delle rotte, anche la tattica del blocco dei porti a cui si aggiunse la non sempre conveniente e poco efficace via diplomatica dei trattati di reciprocità, diffusasi soprattutto nel XVII secolo. Nel Corso del XVIII secolo furono stabiliti trattati tra gli stati cristiani volti a porre fine all’attività dei corsari, che riprendeva però sistematicamente vigore in coincidenza di nuove guerre. Il secolo XIX segnò il definitivo tramonto della corsa, ritornata, almeno da un secolo, al livello di modesta pirateria che aveva nel 1400.

Per secoli la piaga piratesca è stata considerata qualcosa di endemico, contro la quale si doveva comunque avere a che fare, e la si contrastava esclusivamente nella misura in cui le azioni dei pirati fossero dirette contro il proprio commercio e le proprie coste.

Il termine medesimo di guerra di corsa non aveva un’accezione negativa per l’uso, comunemente invalso da parte di tutti i governi, di servirsene sia per la difesa, sia per azioni di guerra.


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