“La poesia bio-politica” e “Poesia. Oggi”. Due riflessioni di Vladimir D’Amora

Creato il 04 maggio 2014 da Criticaimpura @CriticaImpura

Sonia Caporossi, Dis-Locazione Del Sema (2014)

Di VLADIMIR D’AMORA

La poesia bio-politica.

La poesia bio-politica, la poesia dalla poesia, dalla comunicazione non lasciata essere tale, ossia perversione di un dono, e di una forma.
C’è la poesia della vita, è la poesia della forma, pezzi, e non visi, di poesia: se ogni parola conta su una vacanza, una specie della cesura, ecco la presenza che rinvia a una ulteriorità che resti tale, non presentificandosi manco come tale.

C’è la poesia della vita, il detto, nell’evidenza notomizzata come dirsi si ospita: la parola assegnata all’innegoziabilità di un evento che può solo codificarsi come in un calcolo (più o meno prossimo, e di settore), linguisticità irremovibile e però montata in una forma ridotta al suo grado zero.
E’ la poesia dell’aggettivo, la qualificazione che sorge straziando – la poesia della forma. Ch’è parola partecipata, parola letteralmente alienata, ipercodificata, sottratta a se stessa – la poesia socializzata, pubblica, che fa la comunità delle ripresentazioni, della codifica anche smarrita: come instrumentum humanitatis, e immagine di parola.

La vita non si dà al verso, alla forma – come forma. Se la forma già – è. La vita s’informa nella solitudine di una evidenza inaggirabile, anche disturbante, per contiguità immessa in forme essenziali, scabre: la vita è il detto che resiste, che esige un mero richiamo, l’essere contenuto nella interscambiabilità: quanto è un evento impartecipabile, si schiude alla sua anonimità: chi ha nome, dice così come il suo prossimo: sulla targa, secondo un rito di postmoderna scontatezza e omogeneizzazione dei linguaggi, delle qualità eventiche, degl’indici d’autore e d’opera – la singolarità non già qualunque, ma aggrappata alla rimozione del senso, del valore, nel numero.
La forma è la vacanza della parola: la sua perdita, la sua presupponibilità che regga la panoplia della sua appropriazione: la memorazione di parola smarrisce il detto, essa si presta a tanto. Si celebra, la forma, già nella perdita della parola. Le forme sono lo stordimento che cela un’assenza: un vuoto tanto più esigito, quanto più rimosso e rappresentato: ci sono sempre non metonimiche operazioni che sostituiscono il silenzio della mancanza, e del mancamento, e della gag, che fanno esplodere come la pazzia attesa, contenuta, e urbanizzata, messa a lustro, anche sacralizzata. Venduta solo perché la si compri…

La poesia bio-politica è poesia dalla poesia perché la poesia non si tiene in alcuna impossibilità: sia che resista perché registrata e cassata quindi, sia che s’inabissi solo per quel tanto che geli nella sostituzione delle sue forme, comunque alla poesia non è dato di non ridursi a una assenza che non sia solo dialetticamente gestibile, ossia come assentarsi dall’essere assenza di una presenza: la vita è detta tra resistenza e registrazione, la forma dice sia lo sperpero sia la rimozione.

Alla poesia bio-politica, col suo contrarre in una specie di dispositivo kenomaticamente pieno, ossia tale da disperdersi nelle sue rappresentazioni, letterali ri-pro-duzioni, riesce di contraddire quello ch’è forse l’unico tentativo di salvare la poesia dalla poesia: quell’abitare poeticamente, per cui la poesia è apertura a null’altro che a una negazione, anzi, alla originalità di un non: in/m-possibile tensione. Il tentativo di tenere l’uomo ancorato a una insignificanza, di marcarlo secondo una negatività inimpiegabile. Non la poesia della vita, non la linguistica fuoriuscita dal(la forma del) mondo, fa dell’uomo l’essere capace di pensare, fino alla poesia, la sua morte: l’animale linguistico, dotato di entrarvi sempre di nuovo nel suo proprio… Piuttosto la poesia bio-politica, trattenendo la poesia nel profittare della sua essenza, così da qualificarsi nella comunità come per l’individualità (non già per questo individuo qui o, meglio, per questo sì, ma solo se sia ridotto al suo, calcolabilissimo, grado zero), sottrae all’uomo quello spensamento della e nella parola, che la salvi nella sua inapparenza, né come poesia né come altro.
La controparola che sia il segreto indietreggiare nella quiete, donde possa lampeggiare un cenno di poesia, questo la poesia bio-politica finalmente svela come macchinazione: come silenzio e vita, nulla e linguaggio siano scorze in cui trascorrere, comunque.

La poesia bio-politica è l’epocalizzarsi dell’agio di parola. Il suo uso che venga al pensiero come null’altro, che commozione irresponsabile. La caducità del cenno.
Per l’ennesima giostra
l’addolorato perno.

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Poesia. Oggi.

La flagranza laterale.
Generare riconoscimenti notevoli.
Da una volontà di forma, ai residui capaci e impediti, contenti.
Chiamando in causa, in un luogo, per una elegiaca dolenzia, soglia arrischiata in punto però.

La poesia, ed è pure richiesta, viene; e che sia comunicazione espressiva che trae fuori, a parteciparne, una guardata – o l’imprimersi, e sempre là, dove è il confine stesso – forse – l’imprimersi di (un segmento di) mondo.
La fanno nominazione di esistente o, meglio, di ente altrimenti inesistente… Ciascuno e le sue ragioni; non trascurando quel frammezzo, irriducibile ai suoi agganci, che né sta sospeso né, appunto, ne è inghiottito.
Frammezzo di parola precipitata, gettata a condizioni sue, a disattendersi anche.

La poesia. Oggi.
(La situazione di una crisi inapparente, la distribuzione di competenze, la inerme poesia che si lascia spiegare e impacchettare, e pretende allibite e venatorie impossibilità) – mentre i discorsi, gli annunzi, le immagini di mondo e le operazioni costrette da processi impiantati garruli e sornioni, tutto si lascia scorrere nell’occhio, almeno nell’occhio…

Qui è poesia che si concede per spazio trascorso, per tempi angusti – una possibilità che insiste: e si resiste così, come chiamata vuole – nello scaffale, sul riflesso del vetro, con le pile eterne, per le dita che strisciano le parole che ci piombano, in questo frammezzo, ma né lo presuppongono, a mo’ di categoriche impuntature, né lo abitano soltanto chiedendolo esse; e aggirabili innocenti inudibili. I tempi si raccapricciano impiegandosi? Lo spazio è notomizzato, tagliato stazione per stazione? Qui la poesia di oggi si rende l’agio di una riserva: inusata, e perciò condivisa, riserva. Come se non fosse che un punto, l’esigenza: una dicibilità minuta e cogente (libera di volersi): irreparabile, ma secretata. La poesia di oggi è un’esigenza, si tiene non possibile a negazioni, ma si realizza, e non in loro, ma con loro – quasi la rinuncia non possa mai essere della voce propria…
Le categorie chiamano, accusano – tra l’oggi e la sua voce, l’accusata e messa in bando, e non abbandonata, scorrono posizioni certe, ma dolenti. Anche quando cerchi, la poesia pretende ascolto nell’oggi. La poesia oggi è come divorata nel piano di nettezza, la sua è pulizia che informa tempi e spazio: e dell’altro sa anche troppo, ignorandolo anche a celia. E non solo perché possa ignorare se stessa anche.
Non è maiuscola che inabissi, e neppure picchettamento ch’escluda, questa sacralizzazione inapparente dell’oggi e della sua poesia. I tempi dettati sono aree strette, risicate, quando lo scambio sa rompersi, pur vocato a essere mancato. In una filiera che si rischia tra il fitto e la de-lusione, per ordinarie riduzioni a figura, ricusabili anche. Pericolosamente, la poesia oggi, ma non è bella. Non chiede memoria, non si combina come una macchina di chiusa compiutezza e affacciata in abisso – sebbene questa situazione, la leopardiana e-vocazione nulla, le sia storiograficamente calzante.

Categorizzare è imporre, donare condizioni. Chi era condizionato, riceveva l’agio, dalla poesia, di farsi il suo. Del pari, non è parte, oggi, in questo piano di storia, che ci giochi, a dismettere la norma: i nessi legano, le ripetizioni popolano, le domande aprono. Eppure la condizione, che la poesia qui è, è che la lingua riusi non altro che spontaneità.

Spontaneità – lezione non invisa a questa poesia nell’oggi, e indice di un’ingenuità inescusabile, facile alibi anche. Ma, altro può, una voce disposta anche a travestire i suoi montaggi, se non l’operazione dello spontaneo? O non è domanda per queste ragioni, non essendo consentito indovinarne i fini?
Come la poesia si aggancia all’altro, che invita e disattende, rischiandovisi, nella corposità sua; così la voce scorse sponte sua, per quanto era de-cisa: incardinata. Oggi, intanto, è operazione dello spontaneo, che non è lo stesso che spontaneità; perché garantisce, questa messa di voce, di non riuscire a volersi rappresentazione (è l’isolarsi, l’ipersignificare dei nessi), né a rimpatriare volgendosi, se non versandosi, nella narrabilità.

La poesia, l’oggi: di ciò l’altro non chiede, vuole farne a meno. Se non fosse che soltanto la decisione nella narrabilità che sia la sua bolla, lo consegna all’agio di questa differenza, di questa imperturbabilità. Quando la forma, il suo rifiuto, se lo concede…
Ecco perché vi è presenza anche in questo piano, la presenza facile dell’attualità sempre sensata e, insieme, foriera di prodigio. Perché sono solo voci appese a una decisione. Decisione spontanea, di compaginare (e non solo dialettizzare – sebbene con amara riserva…) divenienti stazioni, fughe insperate – in un inizio sempre commosso, sempre intrepido. E accolto, ascoltato anche. La spontaneità è possibilità, voluta dalla poesia, giocata in mezzo a una miriade di negazioni?
E’ spontaneità da appropriare, anche in-con-divisibile?
Anche.
Anche la poesia. L’oggi.


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