Meno mi ami e più splendo, meno mi apprezzi e più mi ergo, meno mi guardi e più divento eterno.
E’ davvero così: in una società dell’apparire, del gridare, del dire, del mostrare a tutti, mettendo sotto i riflettori vita e morte e pochi veri miracoli, restare nel silenzio è un valore aggiunto.
Siamo ormai condizionati dalle approvazioni, necessarie come l’aria, dimenticando spesso il valore vero e profondo per un luccicante effimero scintillio sebbene potente.
Mondadori annuncia la chiusura della collana di poesia “Lo specchio” (qui i dettagli nel bell’articolo di Davide Brullo): la poesia è morta. Nessuno la legge più, tanti la scrivono, un imbuto strozzato dal quale non esce più nulla e quel poco che esce è già morto prima.
Ma davvero ci importa che la gente non legga più la poesia? Davvero vorremmo vedere poeti declamare come pop star i propri versi, osannati e idolatrati? Davvero la poesia serve per “farsi i soldi”? Un oggettino commerciale di poco conto da far vivere pochi attimi e via?
La poesia è un cesello prezioso.
Per chi mi dice che le migliori poesie sono quelle scritte di getto, io dico loro di pensare alla poesia come all’arte culinaria; gli ingredienti dosati, profumati, scelti con cura, con amore, in ripetuti gesti di perfezione, il rito dell’affettare, il coltello molato, il tagliere pulito, la cottura lenta, i profumi, l’aggiunta del sale, la lentezza, il momento in cui si assaggia e si corregge, l’attesa della lievitazione, la decorazione, la guarnizione, e quell’ultimo delicato momento in cui si offre al palato la delizia del godere.
La poesia è l’arte del seme.
Chiara