Prima potevo anche prendermela. Ora inizio quasi a pensare che sia giusto così; normale, anzi necessario e persino bello. È giusto, normale e bello ammettere che, come tante cose della vita e – più in grande – della storia dell’uomo, anche la poesia passa e, ad esempio, quel che per cinquant’anni è sembrato indiscutibilmente un classico, cioè una voce il cui valore sembrava all’unanimità prescindere dal tempo, eternamente godibile (come – fino a prova contraria – un Omero, un Dante o un Leopardi), inizia invece a soffrire di rughe, poi invecchia, rincoglionisce, si ammala e muore. E non parlo del processo ormai riconosciuto dalla psicologia per cui un figlio è fatalmente destinato a “uccidere” il padre andando per la propria strada, oltre il maestro: c’è sempre stata un’avanguardia pronta a uccidere il chiaro di luna, senza che, per questo, alcun Gruppo ’63 riuscisse mai a impedirle di rispuntare bella tonda il mese dopo. Parlo invece del fatto che un giorno ti svegli e tutti (grazie a pochi esperti studiosi del campo) si accorgono che una voce, una voce di poesia, non è mai stata bella secondo l’idea che si addirebbe a un classico, ma era bella solo lì, in quel periodo storico, per il cosiddetto gusto dell’epoca che – ormai spazzato via – ha trascinato con sé qualunque valore immutabile nei tratti di una determinata opera. Ecco, inizio quasi a pensare che a me, questa cosa qui, questa caducità, piace.
L’anno scorso, uscita la traccia del tema di letteratura alla maturità, ho ripensato a quanto mi piace Quasimodo, sorpreso dai tanti commenti di addetti ai lavori che lo ritengono invece un poeta superato, marginale, sopravvalutato, eccetera. Qualche giorno fa, per pubblicizzare su facebook un romanzo del ’67 che gli piace molto e riuscirà il 4 giugno per la Sonzogno, il decaloghista Mozzi ha fatto un preambolo sulla necessità di immaginare un canone alternativo per la scuola, argomentando: “basti vedere come, dalla triade poetica Ungaretti-Quasimodo-Montale quest’ultimo sia gradualmente ma potentemente emerso (per la bellezza, ma anche per l’influenza) emarginando il secondo ma anche il primo”. Come i discorsi sulla necessità di cambiare la Costituzione: sul principio siamo d’accordo, il problema è chi ci mette mano. Poco fa poi, prima di cominciare a scrivere questa cosa, ho letto una citazione da Ungaretti cinguettata su twitter, che diceva “Il vero amore è una quiete accesa”. Ho pensato, quant’è vero; ma anche, quant’è ridicola una frase buttata lì, isolata, qualunque frase, senza il paesaggio in mezzo al quale è nata. Il citazionismo telematico sarebbe capace di ridicolizzare anche la gravità di un referto del medico legale.
Da qualche anno c’è questo poeta di professione, parole sue, Guido Catalano, che si ammazza di reading in tutta Italia e piace molto. Anche a me piace, anzi mipiace. Be’, all’inizio mi piaceva di più. Ho comprato subito Ti amo ma posso spiegarti, poi ho iniziato a seguirlo sul social (dov’è sharatissimo), a vederlo ogni tanto in tv e ora penso che ha trovato una sua buona tecnica sulle orme di Bukowski: la cosa funziona, il tema è universale e, in breve, lo trovo un po’ ripetitivo. Sono passato dal considerarlo un poeta al riconoscerlo come bravo performer. So che è una finta opposizione, perché le due cose non si escludono, ma non mi viene più di comprare un suo libro, ecco. Ecco, a me piace che invece tantissimi altri comprano i suoi libri e continueranno a farlo. E non per l’ottusa guerra santa di sensibilizzazione alla lettura, secondo l’assunto che se leggi sei una persona migliore o più intelligente, ma semplicemente perché si rinnova il fatto che un poeta aderisce ai suoi tanti lettori e loro si leggono nelle sue poesie.
Questo solo importa, la corrispondenza. Il classico conta per il mistero della sua adesione differita a vite che, dopo secoli, abbiamo ancora oggi sotto pelle. Ma i classici sono ben pochi ovviamente e, in quanto tali, piacciono alla maggioranza. Quindi, non è un classico a disegnare il particolare profilo di un orecchio poetico, il gusto personale di un amante della poesia: non sono Dante e Omero che mi fanno pensare a mio nonno, ma l’altero e sorpassato D’Annunzio. Nella frequenza con cui utilizzava l’aggettivo «glauco», per fare un esempio, io ritrovo il filo delle ore che al vespro nonno passava dopo il giardinaggio nella sedia a dondolo sotto il gelso. Per questo, ogni tanto qualcuno può vedermi chino sull’Alcyone. Così, quando io passerò, chi mi avrà conosciuto e amato, forse aprirà le Carte segrete di Scipione e i Canti orfici di Campana; forse troverà qualche mio segno nella babele delle raccolte borgesiane o si fermerà a leggere per intero la storia della signorina Felicita; forse si chiederà come può una donna partorire un titolo come Reato di vita, o troverà divertente l’accostamento che ho fatto nello scaffale fra Il tempo ormai breve e L’attimo dopo.
Certamente, non tutte queste voci appartengono alla stirpe classica e in futuro scompariranno (alcune sono già scomparse e me le ha regalate il caso). Chissà se fra cento anni qualcuno proverà il mio stesso piacere fisico nel leggere una delle traduzioni che Piero Marchesani fece della poesia di Wislawa. Ma non è questo che conta, non mi importa più se il poeta che sto leggendo è un classico oppure no, se lo diventerà domani e io potrò dire di averlo letto per primo, beandomi del suo essergli contemporaneo, e averlo fiutato insieme a pochi altri eletti intenditori; se insomma abbia o meno un valore oltre quello che gli attribuisco io e, con questo valore, si possa integrare il canone vecchio o costruirne uno alternativo. Perché infine è giusto, normale e bello, direi anzi oggetto di una pretesa legittima, che tutto quello che mi piace passi, per aderire definitivamente e ancora una volta alla mia cifra mortale. Resteranno ancora un po’ di tempo, dopo la mia partenza per l’altra riva; poi, che si perdano anche loro: le tracce della poesia che sono stato.