Magazine Cultura
Strutturato come una sequenza di confessioni, il romanzo segue i personaggi che animano il racconto ascoltandone le voci in epoche diverse. Il risultato è un affresco emotivo assai intenso, zeppo di intermezzi dialettali ben congegnati, rapide immersioni nella violenza più insensata e momenti di toccante dolore, ma l'autrice nell'allestimento della sua sfaccettata opera ricorre a escamotage narrativi davvero inusuali: ad esempio a un certo punto lascia parlare una masseria, e in seguito un guardrail, trattando i luoghi e gli oggetti al pari dei testimoni umani della storia. È una Puglia, quella della Nubile, anni luce distante dagli stereotipi dei polpi arricciati sugli scogli, della luce abbacinante del sole e delle orecchiette alle cime di rapa (che pure ci sono, ma restano sullo sfondo). È in definitiva una Puglia meravigliosa e fottuta, un posto che somiglia a molti dei recessi nascosti dentro ognuno di noi. Approfittando della sua consolidata frequentazione di questo spazio, abbiamo girato qualche domanda a Clara.
• Da dove parte questa visione della propria terra natia? Vivi altrove da tempo ma racconti una Puglia amara col piglio di una madre che vede il proprio figlio preferito rovinarsi la vita… Ciao Omar, innanzitutto, e grazie per avermi ospitato nella tua casa virtuale. Bella quest’immagine della Puglia come figlio preferito che si rovina la vita, o anche come primo amore, mai dimenticato… per me è così, viaggio e mi sento cittadina del mondo, poco italiana a volte, ma “tremendamente” pugliese. Questa visione nasce dai miei ricordi, dalla mia adolescenza scandita da sgommate, spari, sigarette di contrabbando, ciminiere assassine; e sai, la lontananza esaspera i ricordi e la percezione del passato, affinandola… il distacco geografico forse allarga gli orizzonti, ma riduce i vertici del cuore.
• Sei riuscita con impressionante efficacia a rendere plausibili le diverse voci che popolano il romanzo. Quanto lavoro c'è dietro questo processo di mimetizzazione (alcune sono voci maschili) e come sei riuscita a far passare alle forbici del direttore editoriale di Bompiani tanto (bel) dialetto? Questo romanzo è nato da un articolo di giornale, trovato nel vecchio armadio che dividevo con mio fratello, quando ero adolescente e vivevo ancora giù. La foto di “Dino”, il super-latitante della SCU, e i suoi occhi di ghiaccio. Lui non parla in italiano, e perciò il dialetto è stato inevitabile. Ci ho messo quasi tre anni a scrivere questo romanzo, per calarmi nei personaggi, anche linguisticamente. Ho letto articoli di cronaca, verbali di processi, ho anche assistito a un’udienza di un processo in cui c’erano alcuni dei miei protagonisti. Per me, è un romanzo molto “maschio”, la voce principale è buia e maschia, spietata, ma c’è anche la dolcezza e la tragicità dell’animo umano. Chi ha letto il mio romanzo in Bompiani ha capito sin dall’inizio la necessità del dialetto, perciò non ci sono stati tagli di quel genere, anzi.
• In alcuni tratti la storia mi ha richiamato in mente il racconto di una Brindisi martoriata dalla malavita che faceva anni fa Osvaldo Capraro: lo conosci, l'hai letto? Segui l'attuale panorama narrativo meridionale (soprattutto considerando che proprio dalla Puglia continuano a giungere esperimenti sempre nuovi e interessanti)? Osvaldo Capraro è un grande scrittore brindisino che conosco poco perché leggo pochi italiani, lo ammetto: sono esterofila, o meglio, indofila. Ma rimedierò. Seguo comunque, anche a distanza, il panorama pugliese. In particolare ho gli occhi puntati su due scrittrici salentine, Luisa Ruggio (il suo romanzo Afra è un capolavoro) e Maddalena Mongiò; e soprattutto… te, Omar. Ho letto e amato i tuoi tre romanzi, Uomini e cani è stata una rivelazione, e anche gli altri due. Quando ho letto La legge di Fonzi stavo già scrivendo Tu come tutto quello che tocchi e sì, lo ammetto, c’è una sorta di continuità fra i nostri romanzi, forse come dici tu «i libri si parlano». • Hai voglia di raccontarci che ci fa una «terrona» in India? Come sei finita da quelle parti ma soprattutto quanto l'approfondimento di una cultura tanto diversa dalla nostra ha segnato e segna la tua scrittura? L’India è la mia seconda casa. La prima volta, nel lontano 1999, ci sono andata per puro piacere, avevo scritto la tesi di laurea su una scrittrice indiana e volevo vedere con i miei occhi questa terra incredibile. Due mesi e mezzo in giro con lo zaino e il mio fidanzato durante il monsone, indimenticabile! Poi ci sono tornata nel 2001 con una borsa di ricerca del Ministero degli Affari Esteri, e sono stata due anni a Bombay (non riesco a chiamarla Mumbai!) all’università, occupandomi di un progetto di ricerca su “gender and writing” (progetto che è stato poi pubblicato da un editore indiano col titolo di The Danger of Gender). A conclusione di quei due anni, l’India è divenuta parte di me, e ho iniziato a fare la pendolare fra distanze ciclopiche: ci torno tutti gli anni, là ci sono i miei affetti, i miei amici, i miei cani randagi (ciao Floffy!) e la mia vita indiana. Una cultura incredibile, interessante, viva. Bombay, una città feroce, spietata, eppure dolcissima, incredibilmente umana, dal cielo di madreperla e piombo. Una città molto meridionale, all’eccesso. Una città che è eccesso. Mi ha molto influenzata l’India, sì. Perché il mio primo racconto (La mano di Dio, pubblicato nell’antologia Principesse azzurre 2 - Mondadori, 2004; e il mio primo romanzo Io ti attacco nel sangue - Lain, 2005) sono stati scritti proprio in India, a Bombay: il tempo in India si dilata, e così ho trovato lo spazio della mia scrittura.
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