La poesia su Berkeley e il gatto di Schrödinger
9 marzo 2015 di Dino Licci
Il filosofo George Berkeley che visse a cavallo del 1700, sosteneva che gli oggetti materiali in tanto esistono, in quanto c’è qualcuno che li percepisce con i propri sensi.
La sua filosofia si può riassumere nella celebre formula: «Esse est percipi», che significa che tutto l’essere di un oggetto consiste nel suo venir percepito e nient’altro. Notiamo in questa asserzione, una certa somiglianza col pensiero di Locke per il quale però esisterebbero:
idee di qualità primarie che sono oggettive come quelle caratteristiche che appartengono di per sé ai corpi (l’estensione, la figura, il moto ecc.) e
le idee di qualità secondarie, che sono invece soggettive (colori, suoni, odori, sapori ecc.), che non hanno corrispondenza nella realtà.
Secondo Berkeley, nemico acerrimo del materialismo, esisterebbero soltanto queste ultime che neanche ci apparterrebbero, venendoci “donate” da uno spirito infinito che egli assimila a Dio. Anzi, con questo ragionamento, il filosofo tenderebbe proprio a dimostrare l’esistenza dello stesso Dio, il quale si configurerebbe come la Mente infinita, grazie alla quale le idee esistono anche quando non vengano percepite.
Cerchiamo di capire meglio questo concetto riportando l’obiezione dei suoi detrattori del tempo, che gli contestavano il fatto che, secondo la sua teoria, un albero cesserebbe di esistere e di crescere se noi smettessimo di osservarlo. Per stigmatizzare la sua risposta Ronald Knox, teologo del XX secolo, coniò una poesiola che riporto:
Si stupiva un dì un allocco:
“Certo Dio trova assai sciocco
che quel pino ancora esista
se non c’è nessuno in vista”
Risposta
“Molto sciocco, mio signore,
è soltanto il tuo stupore:
Tu non hai pensato che
Se quel pino ancora c’è
è perché lo guardo Io.
Ti saluto e sono Dio”
Ora, devo riconoscere che una trentina d’anni fa, quando ripresi in mano i miei vecchi testi di storia e filosofia arricchendoli con letture sempre nuove e sempre più stimolanti, vergai con la matita rossa, definendola pazzesca, la teoria del vescovo irlandese, ma da quando, una quindicina d’anni fa, i miei studi si sono concentrati sulla fisica teorica, la quantistica in particolare, le idee di Berkeley non mi sembrano più del tutto strampalate perché, almeno nell’infinitamente piccolo, è proprio la nostra osservazione che fa “collassare” uno stato probabilistico della materia. Mi spiego meglio:
La fisica quantistica c’insegna che l’infinitamente piccolo, atomico o sub-atomico, è un mondo probabilistico dove tutto può accadere. La probabilità che qualcosa avvenga (in termini tecnici quando avviene il collasso della funzione d’onda), è strettamente legata all’atto di osservazione che diventa coerente con ciò che noi ci aspettiamo di vedere.
Con l’atto dell’osservazione, tutte le altre possibilità diventano incoerenti rispetto a ciò che vediamo e, di fatto, si auto-escludono.
Cercare di spiegare in poche righe l’Universo elegante della fisica quantistica (come lo definisce Brian Greene), sarebbe mera illusione, ma forse la metafora del “Gatto di Schrödinger”, potrà in parte aiutarci. L’esperimento da cui si trae il paradosso, fu ideato dal grande fisico in occasione delle polemiche che videro contrapposte le opinioni di Einstein – Podolsky – -Rosen e che si esaurirono con la famosa interpretazione di Copenaghen, che sancì una volta per tutte, la validità della teoria della meccanica quantistica. Esso ci racconta di un gatto che può essere vivo o morto contemporaneamente. Potete cercare la nota così come fu redatta dallo stesso Schrödinger per chi avesse la pazienza di leggerla, ma si può anche farne a meno, cercando semplicemente di capire che l’esperimento “mentale” e sottolineo mentale da lui ideato, consiste nel pensare ad un gatto chiuso in una scatola dove un elemento radioattivo può o non può disintegrare uno dei suoi atomi, con le stesse probabilità che ciò accada o meno entro un’ora. Se dovesse accadere, tale evento romperà una fiala contenente del cianuro che ammazzerà il gatto. Dopo un’ora noi apriremo la scatola e finalmente sapremo se il gatto è vivo o morto. Finché la scatola è rimasta chiusa, il gatto potrà essere vivo o morto e Berkeley direbbe che solo una mente infinità, cioè Dio, potrebbe sapere se il gatto sia vivo o morto, prima che noi, con i nostri sensi, non trasformassimo in reale un accadimento fino a quel momento meramente probabilistico. Certo le argomentazioni filosofiche di Berkeley sono lontane anni luce dalle formulazioni matematiche che spiegano tale paradosso che chiama in causa menti eccelse del calibro di Bhor, Heisemberg, Bohm, de Broglie, Dirac, per citare alcuni dei massimi fisici del secolo scorso, ma tali elucubrazioni mentali cui mi lascio andare volentieri, mi servono come le divertissement di Blaise Pascal, a distrarmi dalla quotidianità, o almeno a tenermi allenato, soddisfacendo al contempo tutte quelle curiosità che sempre di più affollano la mia mente inquieta.