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La posizione dell’Italia sulla crisi siriana: Daniele Scalea intervistato da IRIB

Creato il 21 agosto 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
La posizione dell’Italia sulla crisi siriana: Daniele Scalea intervistato da IRIB

Daniele Scalea, condirettore di “Geopolitica” e segretario scientifico dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), è stato intervistato il 13 agosto scorso da Radio Italia dell’IRIB (emittente iraniana in lingua italiana) a proposito della politica del nostro paese nel Mediterraneo. La fonte originale può essere raggiunta cliccando qui. Di seguito proponiamo l’audio e la trascrizione dell’intervista.

 

Qual è il suo giudizio sul comportamento del governo italiano rispetto alla crisi siriana?

Negli ultimi decenni la politica mediterranea dell’Italia è cambiata molto. Fino agli anni ’80 l’Italia mostrava una certa libertà d’azione rispetto all’alleanza di riferimento (la NATO), e in particolare cercava di perseguire una politica per certi versi “terzomondista”, d’amicizia col mondo arabo. Un esempio è Enrico Mattei, che con la sua ENI, strinse accordi con l’Egitto e l’Iran e appoggiò la lotta per l’indipendenza dell’Algeria. Dirigente di un’importante impresa di Stato, Mattei aveva appoggi politici del calibro di Amintore Fanfani. Un altro politico decisamente filo-arabo è stato Aldo Moro. In tempi più recenti, gli esempi sono Andreotti e Craxi. Quest’ultimo ebbe rapporti stretti con molti politici arabi, tra cui Gheddafi (al-Qaḏḏāfī), che salvò – come si è poi saputo – dal tentativo d’assassinio degli USA informandolo in anticipo del bombardamento ordinato da Reagan. Non è un caso che Craxi, una volta caduto in disgrazia in Italia, abbia trovato rifugio proprio in un paese arabo, la Tunisia. Andreotti ha sempre mostrato posizioni che oggi sarebbero giudicate eccentriche in Italia. Egli affermò di credere che, se fosse nato in un campo profughi palestinese, anche lui avrebbe finito col diventare un attentatore suicida. In un celebre discorso in Parlamento, Craxi disse di non condannare la lotta armata dei Palestinesi (pur giudicandola non producente). Dichiarazioni decisamente lontane da quelle che ci si potrebbe attendere oggi dai dirigenti dello Stato italiano.
Cos’è cambiato? Innanzi tutto, finita la Guerra Fredda l’Italia ha perso molto del suo valore strategico di paese di confine tra i due blocchi, che le consentiva di giocare sulla rivalità USA-URSS per trovare degli spazi d’autonomia. Di colpo si è ritrovata a non avere più molte carte da giocare. Tanto più che nel ventennio successivo l’integrazione europea ha fatto grossi avanzamenti, e su quella si è concentrata la politica italiana. Nel frattempo è inoltre cambiata un’intera classe politica. Il fenomeno di “Mani pulite” (che qualcuno ritiene un “colpo di stato giudiziario”) ha portato allo scioglimento dei partiti egemoni della cosiddetta “Prima Repubblica”. Sparì così una classe politica ancora gelosa dei suoi spazi d’autonomia e legata al patrimonio pubblico, che negli anni successivi è stato in gran parte privatizzato. Da allora la politica italiana è cambiata, con un fortissimo allineamento agli USA (e in misura minore all’UE), una politica decisamente meno filo-araba, l’avvicinamento a Israele sulla Questione Palestinese. Da allora sono stati trascurati i rapporti bilaterali con gli Stati arabi, agganciandosi alla politica di Washington e Bruxelles nella regione, dunque con un ruolo da comprimari – o addirittura da comparse. Così l’Italia è uscita dalla politica del Mediterraneo: in questo momento il nostro paese non è in grado d’incidere sugli equilibri regionali, e nemmeno ci prova.
Per quanto riguarda la crisi siriana, vari fattori possono giocare un ruolo sull’attivismo – soprattutto retorico – mostrato dalla diplomazia italiana: la simpatia del ministro Terzi per Israele (paese in cui è stato ambasciatore), la volontà di compiacere la Turchia e i tanti paesi arabi ostili a Assad. E l’Italia, mancando di strumenti concreti, punta molto sulla dimensione verbale e dell’immagine: ci si prodiga in varie dichiarazioni molto dure per cercare una ribalta, come sostitutivo dell’influenza materiale che altri paesi riescono ad avere sulla crisi siriana.


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