In quelle terribili giornate della fine del 1969, quaranta anni fa, non ci fu solo la strage di piazza Fontana. Ci fu qualcosa prima. Ero, il 12 dicembre di quell’anno, come cronista per conto di questo giornale, (facendo la spola tra Milano e Roma), nelle stanze del ministro del Lavoro in via Flavia, nella capitale. Era in corso la trattativa-madre per il contratto dei metalmeccanici.
La posta in gioco era enorme, rappresentata da un pacchetto di richieste (diritti, salario, orario) che avrebbero segnato una svolta nelle relazioni sociali. E giunse in quelle ore la notizia da Milano. Rivedo ancora – le immagini risaltano intatte nel bel film di Ugo Gregoretti “Contratto” – le tensioni, le discussioni nelle folte delegazioni operaie. Attorno ai leader sindacali dell’epoca, Bruno Trentin, Luigi Macario, Pio Galli e altri c’era chi sosteneva la necessità, a quel punto, di affrettare in qualche modo la chiusura della vertenza, magari rinunciando a qualche elemento. Chi sosteneva il contrario. Ricorda oggi Pio Galli di una sua esclamazione “Non possiamo mica calare le braghe proprio adesso!”.
Era netta la consapevolezza che la strage a Milano rappresentava l’inizio di quella che poi fu chiamata “strategia della tensione”: un atto voluto per bloccare un movimento di lotta, capace di mutare gli equilibri sociali e contribuire a dare un diverso sbocco politico alle istanze del Paese. E del resto anche negli anni seguenti, le bombe, gli attentati criminali, le “gesta” assassine di Prima Linea e Brigate Rosse, furono sempre interpretate come un decisivo contributo a bloccare quel movimento, a renderlo impotente.
Questa era la posta in gioco. Oggi appare un po’ ridicolo paragonare tale epoca all’epoca nostra. Semmai oggi ci si dovrebbe soffermare su un aspetto. Appariva, nel nero dicembre di quaranta anni fa, come interlocutore decisivo, il sindacato unito. L’enorme folla operaia che riempì piazza del Duomo a Milano, per i funerali delle vittime di piazza Fontana, aderì innanzitutto all’appello di Cgil, Cisl e Uil. Il sindacato compatto conservava un ruolo, un’autorevolezza che consentiva la coesione sociale.
Oggi non è più così. E ha ragione chi rammenta come il centrodestra abbia scientificamente perseguito non tale coesione ma la divisione sindacale e la frammentazione dei salariati. Un colpo a una presenza unitaria basata su democrazia e autonomia che imprimeva fiducia e speranza. Un ruolo che oggi potrebbe, questo sì, trasformare le cosiddette “campagne d’odio” personalizzate” (a destra e in parte a sinistra) in campagne d’odio nei confronti di alcune scelte politiche insopportabili: quelle che creano disoccupazione e abbandonano migliaia di giovani e cinquantenni (un milione e mezzo dice Draghi) senza ammortizzatori, l’accanimento contro gli immigrati, gli attacchi agli organi istituzionali. Potrebbe far prevalere gli interessi non di qualche impresario dei mass media, ma del Paese, del mondo del lavoro e di gran parte dell’imprenditoria manifatturiera.