Chiamare una band con la sigla di una unità di misura potrebbe sembrare una pazzia o una leggenda come ce ne sono tante nella storia della musica.
Un pò come la storia di una ragazzina australiana che legge sul retro di un elettrodomestico una sigla elettrica che darà il nome ad uno delle più famose e importanti band dell’hard rock (piccolo quiz: di chi sto parlando?).
Si può essere leggendari componendo una discografia sontuosa con all’interno album da 60 milioni di copie vendute (piccolo indizio per il quiz di cui sopra) oppure con una carriera che non decolla mai a causa del genere che hai scelto di suonare. Un genere ostico da suonare e interpretare dall’artista, difficile da comprendere dall’altra parte della barricata, quella dell’ascoltatore. Il folk.
I Sixteen Horsepower, band americana attiva dal 1992 al 2005, sono stati grandi anche se poco conosciuti, difficili da trovare sugli scaffali (soprattutto qui in Italia) e ancor più complicati da comprendere.
Questo non lo potevano sapere il folksinger Eugene Edwards, il battersista Jean Tola e il musicista francese Pascal Humbert quando decisero di fondare un gruppo e chiamarlo Sixteen Horsepower, abbreviato spesso in 16 HP, prendendo spunto dall’unità di misura della potenza in uso nel sistema di misurazione americano (il cavallo vapore o HP) e una canzone folk (sixteen) a cui il terzetto era molto legato.
Il folk, mescolato sapientemente con il rock, il blues, il country, è la chiave di lettura per comprendere la complessità di un sound che non ti conquista subito ma che ha bisogno di vari ascolti prima di impossessarsi della parte più ricettiva del tuo cervello: le armonie allegre e veloci del country e del blues si amalgamano perfettamente con le tematiche folk cantate dalla suadente e calda voce di Edwards che disegna un oscillante ambiente ipnotico; chitarra folk, accordi blues, concertina Chemintzer, banjo e organo compongono un ensamble di suoni e percezioni che ti fa venir voglia di mettere in loop lo stereo e sovrapporre gli ascolti finchè non si siano afferrate tutte le sfumature più o meno nascoste nei brani.
Il migliore e forse più rappresentativo album dei Sixteen Horsepower è quello d’esordio, Sackcloth’n'Ashes (1992), che contiene la summa maxima di quanto questi ragazzi riescono a fare con uno strumento in mano e in mente nient’altro che la loro cultura fortemente impregnata dal folk americano.
L’album si compone di 14 tracce:
1.I Seen What I Saw
2.Black Soul Choir
3.Haw
4.Scrawled in Sap
5.Horse Head
6.Ruthie Lingle
7.Harm’s Way
8.Black Bush
9.Heel on the Shovel
10.American Wheeze
11.Red Neck Reel
12.Prison Shoe Romp
13.Neck on the New Blade
14.Strong Man
tra cui le più interessanti dal punto di vista della ricerca musicale e dell’atmosfera sono I Seen what I Seen, Prison Shoe Romp e, su tutte, American Wheeze di cui vi faccio ascoltare un live dall’album Hoarse del 1998
Il termine wheeze in italiano viene tradotto con soffio o barzelletta regalando al brano un significato nascosto nel testo che ognuno di noi può interpretare in maniera diversa a seconda delle sensazioni che il brano gli ha suscitato durante l’ascolto.
Il testo di American Wheeze
I’ve grown tired, of the words of the single man
hangin’ lifeless on his every word,
Oh man you don’t understand dear man
the little angel held out her hand
sayin’ father, father I love you
oh praise Jesus I got herok yeah billygoat an we’ll play farm
I didn’t mean to spirit stiff you
nor to doy you no harm
you say you’ve got a bone to pick
well, there’s plenty showin’ on me
come on up yeah bring your temper boy
we’ll see, we’ll seeYeah you may be the only one come on son
bring your blade and your gun
and if I die by your hand
I’ve gotta home in glory land
Come la musica già sottolinea benissimo, il testo getta un’ombra sull’ascoltatore trascinandolo in una situazione immaginaria surreale e molto gotica, in un’avventura trascendentale che comincia con una nascita e termina con una morte (e questo è molto blues).
Basterebbe solo questo primo splendido album per dare la misura della grandezza dei Sixteen Horsepower ma, i ragazzi americani, hanno voluto fare di più incidendo, oltre a 2 live, altri buoni album, non all’altezza di Sackcloth’n'Ashes ma comunque validi. Ascoltare per credere.