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La presenza militare statunitense in America Latina

Creato il 23 novembre 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
La presenza militare statunitense in America Latina
Introduzione

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una sempre più capillare presenza militare di Washington in molti dei paesi dell’America Centrale e Meridionale, una presenza che ha scatenato roventi polemiche in molte di queste nazioni e che ha, di fatto, attirato l’attenzione di analisti ed esperti di politica internazionale.

Procedere ad analizzare la presenza militare statunitense in questa regione del mondo non è impresa di poco conto, data l’oggettiva difficoltà legata all’individuazione di tutte le basi che gli Stati Uniti hanno istituito sia in America Centrale che Meridionale. Al di là poi dell’importanza che può rivestire una puntuale “mappatura” delle stesse, ciò che appare interessante, ed è lo scopo che si pone questa ricerca, è tentare di delineare un quadro esaustivo della situazione attuale in America Latina, fornendo degli strumenti che possano far capire il fenomeno e portare ad una maggiore comprensione delle motivazioni che hanno “provocato” questa militarizzazione statunitense. Una militarizzazione che, è bene chiarirlo sin da ora, risponde ad esigenze diverse in base alle aree su cui poniamo la nostra attenzione. La necessità di una forte presenza militare nella regione andina, ad esempio, non è giustificabile, strategicamente parlando, adottando gli stessi criteri interpretativi che è possibile utilizzare analizzando la stessa in aree dell’America Centrale (pensiamo al Nicaragua o a Panama).

Un punto di partenza per dare avvio ad una analisi che spieghi il perché della penetrazione militare statunitense in America Latina è ricordare la firma del cosiddetto “Plan Colombia”, l’accordo bilaterale firmato, nel 1999, dall’allora presidente colombiano Pastrana Arango e dagli Stati Uniti, guidati all’epoca dall’amministrazione Clinton1.

In breve, tale accordo presentava tra i suoi obiettivi fondamentali quello di contrastare il conflitto interno che stava martirizzando la Colombia e dare a quest’ultima la possibilità di dare avvio ad una rinascita economica e sociale che la sollevasse dalla difficile situazione nella quale giaceva da anni. Unire le forze dunque, per combattere il narcotraffico e il traffico di armi, piaghe che affliggevano e affliggono tutt’oggi la Colombia e molti altri paesi latinoamericani. Gli Stati Uniti stanziarono aiuti per la guerra al narcotraffico per una cifra pari a 600 milioni di dollari, che sarebbero stati investiti quasi totalmente per la creazione e l’addestramento di forze speciali contro il narcotraffico; venne firmato, nel dicembre 1999, un accordo parallelo per incrementare la collaborazione militare tra i due paesi. Cominciò così, di fatto, una importante penetrazione militare statunitense nel cuore dell’America Latina, che si protrasse negli anni successivi.

Nel 2009 il presidente colombiano Uribe dichiarò pubblicamente di aver firmato un accordo con il Presidente George W. Bush, nel quale si prevedeva la concessione di sette nuove basi militari statunitensi in territorio colombiano. La notizia sollevò preoccupazione e polemiche in tutta la regione, a cominciare dal Venezuela, seriamente preoccupato dalla crescente presenza militare statunitense in un punto nevralgico dell’America del Sud.

Di fatto, gli Stati Uniti, sono riusciti a porre basi militari in una zona altamente strategica, proprio nel cuore dell’America Latina, permettendogli di controllare e penetrare facilmente anche in altre nazioni sud americane. Una presenza militare motivata da interessi differenti a seconda delle regioni d’intervento: ad esempio nella regione sudamericana tali interessi sono legati, principalmente, alle risorse energetiche ma non si può dire lo stesso rispetto al Centro America, dato che in questa zona gli interessi statunitensi gravitanno attorno alla lotta al narcotraffico ed al controllo dei flussi migratori.

Secondo i dati registrati dall’agenzia delle Nazioni Unite ECLAC (Economy Commission for Latin America and the Caribbean), grazie alle energie rinnovabili prodotte nell’area sudamericana, si è prodotto l’equivalente di 1.284.164 milioni di barili di petrolio all’anno. Il principale produttore di energie rinnovabili è il Brasile, seguito da Messico, Venezuela, Colombia, Argentina e Cile. Inoltre, Brasile Urugay e Cile hanno investito importanti risorse finanziare nella produzione di biocarburante e nella geotermia, possibile grazie allo sfruttamento della zona conosciuta come “anello di fuoco”, situata nell’Oceano Pacifico, e nella quale si trovano la maggior parte dei vulcani del mondo.

Tentare di fornire un quadro il più attendibile possibile sulla presenza militare statunitense in queste aree permette anche di rendere più chiari quali siano gli interessi in gioco in questo momento. E quali siano le strategie politiche ed economiche messe in atto dal governo a stelle e strisce al riguardo.

Il ritorno della IV flotta

Il 1 luglio del 2008 il governo di Washington ha deciso di riattivare la IV Flotta della marina militare degli Stati Uniti d’America, alle dirette dipendenze del U.S. Southern Command (USSOUTHCOM). L’area di responsabilità del Comando Sud, che ha la sua base logistica in Florida, precisamente nella località di Doral, comprende 32 nazioni (19 in sudamerica e 13 nell’area caraibica) e dispone di ben 1200 uomini, tra militari e personale civile. Nel 2007, il Southern Command ha subito una profonda trasformazione, legata alla necessità che questo avesse a disposizione mezzi (materiali e di intelligence) che rendessero più coordinata ed efficace la lotta al narcotraffico e al terrorismo internazionale. Si è dato così avvio a varie collaborazioni tra questa sezione dell’U.S Navy e organizzazioni regionali di varia natura presenti in America Latina, il cui scopo è, ufficialmente, quello legato alla lotta della criminalità internazionale e del narcotraffico. Giova ricordare che la IV flotta, creata nel 1943 per far fronte alla minaccia dei sottomarini nazisti nel Mar dei Caraibi e nell’Oceano Atlantico, fu tenuta in vita fino al 1953.

Guidata da un ammiraglio di divisione, il generale Jonh F. Kelly, la IV flotta ha dunque il compito di controllare le operazioni militari navali che riguardano, di fatto, tutta l’America centrale e meridionale. Pensata per rafforzare le strutture amministrative e di comando della marina militare statunitense nelle operazione congiunte con altri paesi nell’area del Comando Sud, questa “Alleanza delle Americhe” prevede ogni anno un certo numero di esercitazioni internazionali realizzate dalle forze Usa con militari della regione tra Caraibi, centro e sudamerica.

Subito dopo la “rinascita” della IV flotta, il generale in capo delle operazioni navali, Gary Roughferd, ha dichiarato che:

“(…) il ridispiegamento della IV flotta è il riconoscimento dell’immensa importanza che la sicurezza marittima riveste nella parte sud dell’emisfero e i segnale della nostra disponibilità ed interesse per i servizi marittimi civili e militari di Centro e Sud America”2.

A tale dichiarazione ha fatto eco poi quella dell’ammiraglio James Stevenson, che ha motivato la necessità del ripristino della IV flotta al fine di:

“dimostrare l’impegno degli Usa presso i loro partner regionali (…). (Essa) darà maggiore consistenza alla presenza americana nella zona”3.

Dichiarazioni, queste, che non hanno placato le numerose polemiche che si sono sollevate nelle amministrazioni e in larghi settori della società civile di paesi quali il Brasile, Venezuela, Bolivia ed Ecuador, che temono una pesante penetrazione militare nella propria regione. Una penetrazione legata più alla finalità di ottenere un ampio controllo delle preziosissime risorse naturali ed energetiche che offre il territorio sudamericano, più che alla sola questione del narcotraffico.

Il Brasile e la scoperta di nuovi giacimenti di petrolio offshore nella baia di Tupi

In molti hanno fatto notare come la decisione di Washington di riattivare la IV flotta è stata resa pubblica a poca distanza dall’annuncio della scoperta, al largo della costa brasiliana, precisamente nella baia di Tupi, di uno straordinario giacimento di petrolio, il cui quantitativo estraibile è stimato tra i 5 e gli 8 miliardi di barili. Nel luglio del 2008 la compagnia petrolifera Petrobas, compagnia brasiliana di ricerca, estrazione, raffinazione e vendita di petrolio con sede a Rio de Janeiro, attraverso il suo portavoce Francisco Filho Nepomuceno (amministratore della sede londinese di Petrobas) ha dichiarato all’agenzia di stampa MercoPress che, a seguito della scoperta di questi nuovi giacimenti, le riserve petrolifere offshore del Brasile ammonterebbero a circa 60 miliardi di barili 4. Non di meno conto, poi, la scoperta di nuovi importanti giacimenti di gas naturale, sempre nel territorio brasiliano: quello nel bacino di Espirito Santo e in quello di Brigadeiro. Non occorre sottolineare come, all’indomani della tragedia nucleare di Fukushima e con l’andamento del petrolio sempre più altalenante, il gas naturale sia attualmente la fonte più sicura e valida di approvvigionamento energetico. E il Brasile ne ha in abbondanza.

L’Atlantico meridionale sta dunque riacquisendo un’importanza a livello geopolitico ed economico, attirando su di sé numerose potenze mondiali – Cina e Russia incluse – che vedono di fronte a loro, la possibilità di realizzare investimenti particolarmente vantaggiosi. Il Brasile, inoltre, non ha la possibilità di sfruttare appieno le risorse naturali di cui dispone senza dover, necessariamente, richiedere investimenti e aiuti che provengono, nella maggior parte dei casi, dalle multinazionali straniere. Le difficoltà sono legate non solo alla profondità dei giacimenti in questione, ma soprattutto agli elevati costi legati alle tecnologie necessarie all’estrazione di petrolio e gas. Al riguardo, la compagnia Petrobas dal 2007 sta contrattando finanziamenti per l’ammontare di 47 miliardi di dollari al fine di sovvenzionare i suoi progetti in cantieri e quelli futuri5.

La ricchezza brasiliana riguardo alle proprie risorse energetiche si pone, da un lato, come una grande occasione per questa nuova potenza emergente di contare sempre più a livello internazionale e di poter godere sicuramente di ampi spazi di manovra, legati alla crescita economica che si prospetta dinanzi ad essa; dall’altro lato, la classe dirigente brasiliana sa di dover, di fatto, difendersi dagli interessi che le potenze mondiali nutrono per questa area geografica. Non è un caso che, dal 2008, il governo brasiliano abbia investito enormemente per accrescere i propri armamenti. L’allora presidente Lula, allo scopo di difendere il Brasile da eccessive ingerenze e tentativi di sfruttamento da parte di potenze estere di queste “miniere d’oro”, ha avviato importanti trattative per l’acquisto di armi dalla Francia per l’impressionante cifra di 14 miliardi di dollari (all’interno del più ampio accordo di cooperazione militare denominato Rafaele). Inoltre, è stata fondata, sempre nel corso del 2008, una società pubblica diversa dalla Petrobas, la Petrosal. La Petrobas, unica società autorizzata ad operare nei nuovi giacimenti scoperti, potrà entrare in joint venture con società straniere per lo sfruttamento dei giacimenti presal solo a condizione di possederne il 30%. I contratti stipulati saranno poi totalmente gestiti sotto la supervisione della compagnia pubblica Petrosal6.

Una difesa strenua delle proprie risorse, dunque, che certo vede nella possibile ingerenza di potenze straniere una minaccia alla propria espansione economica e politica in ambito internazionale. Non sorprende che la massiccia presenza militare in sudamerica preoccupi anche il governo brasiliano, che vede in questa militarizzazione statunitense dell’America Latina un tentativo di controllo non solo della crescita economica ma anche della possibilità per il sudamerica di svolgere un nuovo ruolo a livello mondiale. Nell’aprile 2012 è stato annunciato il raggiungimento di un “Accordo tra la Repubblica Federativa del Brasile e il governo degli Stati Uniti d’America rispetto alla Cooperazione in materia di Difesa”. Il governo brasiliano ha voluto immediatamente informare la stampa sulla portata di tale accordo:

“…un mero accordo di difesa e collaborazione; non è previsto l’accesso o la presenza di soldati degli Stati Uniti in basi militari brasiliane e c’è una clausola che prevede il rispetto dei principi di integrità, inviolabilità territoriale e non intervento negli affari interni stabiliti dall’UNASUR”7.

Così, alla luce di quanto detto, non appare inspiegabile la reazione di molte amministrazioni sudamericane di fronte alla scelta dell’amministrazione Bush di riattivare una sezione militare, la IV flotta appunto, che di fatto centralizzerà le sue missioni nell’Oceano Atlantico. Una scelta che appare legata, innegabilmente, anche all’importanza sempre crescente delle possibilità di sfruttamento economico che l’America Latina offre attualmente. Una realtà, questa, che va ben oltre il solo caso brasiliano.

Operazioni congiunte e nuove basi statunitensi in America Latina

E’ un fatto che le operazioni portate avanti dal Comando Sud vanno a incrementare la presenza militare statunitense nella regione, completando l’anello delle basi navali a stelle e strisce già presenti, che include le base di Campala (El Salvador), di Manta (Ecuador),di Guantanamo (Cuba), di Comayuga (Honduras) e di Atuba (Curaçao)8.

Nel luglio del 2005, inoltre, è stata costituita una nuova base militare statunitense nel cuore del Paraguay, precisamente a Estigarribia, piccola cittadina di 30 mila abitanti situata a 250 chilometri dalla frontiera con la Bolivia9.

Una presenza, quella statunitense, legata non solo alle attività del Commando Sud, ma che si esplica anche attraverso altri tipi di intervento. Dall’adozione del Plan Colombìa, infatti, sono state adottate anche tutta una serie di iniziative legate alla lotta al narcotraffico e alla promozione degli aiuti umanitari da dare a numerose comunità di vaste aree della regione sudamericana.

Pensiamo, ad esempio, al “Plan Dignidad” o alla “Iniciativa Andina”, che operano attraversano missioni quali Nuevos Horizontes, le quali, con l’obiettivo di arginare il narcotraffico, prevedono operazioni congiunte di forze armate di diversi paesi del continente e dell’esercito statunitense. Si tratta, nella maggioranza dei casi, di operazioni condotte sotto l’effige della missione umanitaria, e che di fatto garantiscono ai militari americani una presenza costante e capillare in vaste aree dell’America Latina.

Basti pensare che solo in Colombia, a seguito della firma del Plan Colombia, vennero installate ben tre basi militari americane, quella di Esquinas, quella di Larandina ed infine quella di Puerto Leguizamo. Nate come basi militari provvisorie per contrastare le attività di guerriglia dei narcotrafficanti, si sono trasformate ben presto in basi logistiche permanenti10. Non solo.

Nel 2010 il presidente americano Obama aveva annunciato l’intenzione di dar vita ad una nuova base logistica e militare nel cuore della Colombia, a Palanquero, con il fine di rafforzare la lotta al narcotraffico e all’attività delle FARC, all’indomani dell’omicidio di Luis Francisco Cuéllar, governatore della provincia colombiana di Caquetá. L’omicidio, rivendicato solo successivamente dalle FARC, venne motivato dalla volontà di reagire all’accordo che il presidente Alvaro Uribe Vélez aveva raggiunto con Washington per la concessione di nuove basi militari all’esercito americano11.

L’accordo tra Colombia e Usa era diventato noto nel maggio del 2009, quando, su proposta del Pentagono, il governo americano aveva presentato al Congresso un progetto di finanziamento per la costruzione della nuova base di Palanquero, al fine di garantire operazioni (anche aeree) contro il narcotraffico, da protrarsi fino al 2025.

La richiesta del governo statunitense a favore del Pentagono venne inserita all’interno del capitolo denominato “Posizionamento di difesa globale”, nel quale lo stesso presidente Obama aveva elencato le ragioni strategiche in virtù delle quali si rendeva necessario un nuovo dislocamento di uomini e mezzi statunitensi. Secondo quanto si legge in un documento pubblicato in esclusiva sul quotidiano El Tiempo:

“L’obiettivo del Dipartimento è realizzare una serie di accordi di accesso per operazioni di contingenza, logistica e addestramento in Centro e Sud America e per questo si stanno discutendo le modifiche necessarie a rafforzare il nostro accesso a vari paesi della regione. Il budget per il 2010 include 46 milioni di dollari per un’infrastruttura per la cooperazione alla sicurezza nella base di Palanquero, Colombia”12.

Se l’ampia presenza militare americana in Colombia è fatto ormai noto, più difficile appare elencare con precisione le altre innumerevoli basi che il governo di Washington ha in altri paesi latinoamericani. Vale la pena ricordare, oltre a quelle già menzionate precedentemente, altre basi logistico-militari situate in zone particolarmente rilevanti da un punto di vista geopolitico, alle quali l’esercito statunitense ha “accesso” proprio grazie a quegli accordi di collaborazione (che prevedono ampi finanziamenti da parte degli Stati Uniti agli eserciti nazionali di vari Paesi) stretti in nome della lotta al traffico di droga. In Perù ne contiamo due, quella di Iquitos e quella di Nanay, in cui si svolgono operazioni congiunte USA/Perù grazie all’appoggio, anche finanziario, che i nordamericani hanno garantito all’Iniciativa Regional Andina13.

E le operazioni congiunte tra l’esercito nordamericano e gli eserciti nazionali sudamericani, come anche le cosiddette FOL (Forward operating locations), legate sempre all’assistenza che il primo garantisce ai secondi soprattutto per la lotta al narcotraffico, non sono attive nella sola Colombia. Tra le più note vi sono le denominate operazioni Cabañas, attive a Panama (dove la presenza militare statunitense è assai rilevante dalla costruzione del ben noto canale), a Puerto Rico e in Argentina.

Ancora, vale la pena menzionare il centro militare nel Chaco, in Argentina, prima base del Commando Sud nel paese. Sorto ufficialmente nell’aprile del 2012, è stato presentato dal governo di Washington come una base militare:

“designed for natural emergencies such as floods or droughts, but it can be used as well for epidemics like dengue fever…”14.

La base militare chaqueña si colloca in una zona di alta importanza strategica, quella della Tripla Frontiera, nei pressi dell’acquifero Guaraní, enorme bacino di acqua dolce dove convergono le frontiere di Brasile, Paraguay e Argentina15. L’accordo per la costruzione della base è stato siglato dal governatore della provincia del Chaco, Jorge Capitanich, promotore di una nuova alleanza con gli Stati Uniti, come lui stessa l’ha definita, e il comandante statunitense del Comando Sud Edwin Passmore16.

Basi statunitensi in America Centrale

In America Centrale la presenza militare statunitense è altrettanto rilevante, basti ricordare la base di Parmerola, in Nicaragua, attiva dal 1984, e quella di Comalapa, nel Salvador. La politica estera statunitense nei confronti dei paesi centroamericani meriterebbe una lunga trattazione, data la sua peculiarità. Qui la lotta al narcotraffico assume una fondamentale importanza, in particolare per quanto riguarda le relazioni tra Messico e Stati Uniti, assoggettate ai problemi di frontiera, a loro volta legati anche alla spinosa questione dell’immigrazione clandestina negli States. Il Messico, così come il resto del Centroamerica, è un partner cruciale per Washington. Dalla frontiera passano milioni di camion e containers di merci ogni anno e il Messico è uno dei primi fornitori di petrolio per gli Usa. L’80% delle esportazioni messicane sono dirette proprio negli Stati Uniti, mentre il 30% delle esportazioni americane sono dirette in Messico17.

Il tema legato all’immigrazione, poi, è una annosa questione che coinvolge tutti i paesi dell’area centroamericana e il governo statunitense, in particolare per quanto riguarda il trattamento degli immigrati centroamericani negli States. La sicurezza nella regione è uno dei punti focali nell’agenda del governo di Washington, data la enormità degli interessi legati ad essa18. In questa direzione si muove anche la stipulazione, nel 2004, del CAFTA-DR, un accordo multilaterale tra gli Stati Uniti e cinque paesi dell’America Centrale: Guatemala, Honduras, Costa Rica, El Salvador e Nicaragua, a cui si aggiunge infine anche la Repubblica Domenicana. Tale accordo pone in essere una cooperazione regionale che ha come fine il sostegno allo sviluppo economico dei paesi centroamericani, attraverso l’eliminazione delle tariffe doganali, la creazione di zone di libero scambio, promozione della trasparenza negli scambi commerciali. Un accordo, questo, particolarmente rilevante, se si pensa che L’America Centrale e la Repubblica Domenicana rappresentano il terzo mercato d’esportazione per gli United States: solo nell’anno 2009 i traffici commerciali tra Usa e Centro America sono stati valutati intorno ai 39,7 miliardi di dollari19.

Rispetto al tema del narcotraffico, altra questione fondamentale insieme al problema dell’immigrazione legata alla “Frontiera Sud”, va ricordato che il 2012 si è concluso con risultati lungi dall’essere rasserenanti. I paesi della regione centroamericana imputano il fallimento della lotta al narcotraffico proprio alle politiche portate avanti dal governo di Washington, reo di non voler affrontare il problema alla radice. Secondo una recente analisi dell’UNDOC, l’Agenzia dell’ONU che si occupa della lotta ai traffici di droga, negli ultimi quattro anni gli Stati Unitii hanno investito 100 milioni di dollari per fornire ai governi centroamericani armamenti bellici, apparecchi militari e consulenze senza riuscire ad ottenere risultati degni di nota. Nel marzo del 2012 il presidente guatemalteco Pérez, forte anche dell’appoggio di altri paesi della regione, aveva proposto di depenalizzare le droghe, sostenendo che le politiche repressive attuate fino a quel momento, come da volontà nordamericana, non portavano, di fatto, a nessun tipo di risultato, se non quello di un allargamento del controllo statunitense su ampie aree della regione, attraverso le sue basi militari. Proposta che, naturalmente, gli Stati Uniti hanno rispedito rapidamente al mittente20.

Appare inoltre rilevante aprire un ulteriore parentesi, che può risultare utile a comprendere le dimensioni della questione da noi trattata. Alle basi statunitensi presenti in Centro e Sud America vanno aggiunte anche le basi Nato presenti nella regione, di fatto controllate principalmente dall’esercito statunitense e da quello britannico. Le basi NATO in territorio sudamericano sono, in totale, 25. Solo 6 di queste sono effettivamente controllate dall’esercito britannico.

Ora, la presenza militare nordamericana in America meridionale e Centrale risponde ad esigenze ed interessi diversi. Nella prima a giocare un ruolo chiave sono le risorse energetiche di cui la regione dispone e i nuovi equilibri politici che vanno a delinearsi nei paesi strategicamente più rilevanti; in America Centrale le questioni più rilevanti sono legati al tema quali il narcotraffico e la gestione dei flussi migratori, senza dimenticare l’importanza che la zona riveste da un punto di vista geografico in termini strategici.

A questo si aggiunga il fatto che gli Stati Uniti non fanno mistero del timore che questi nutrono circa nuove super potenze che si sono affacciate e/o cominciano ad affacciarsi nella regione sudamericana, interessati non solo alle risorse che questa ha da offrire, ma anche intenzionati a tessere relazioni diplomatiche e commerciali particolarmente vantaggiose: pensiamo alla Russia, che durante il governo Chávez aveva stretto un rapporto assai solido con il Venezuela (non solo da un punto di vista economico) e alla Cina, rivale politico ed economico degli USA che, negli ultimi anni, ha investito ingenti somme di denaro in molti paesi latinoamericani, dando vita a partenariati commerciali e finanziari che non godono certo del plauso statunitense.

Gli interessi nordamericani in America Latina riguardano, fondamentalmente, tre ambiti: economia, sicurezza, risorse energetiche. In cima alla lista delle preoccupazioni di Washington figurano il controllo del mercato delle armi nella regione e la salvaguardia del commercio petrolifero con Caracas (4° fornitore degli USA)21.

Il 29 giugno 2009 il sito Wikileaks ha pubblicato un interessante documento top secret, classificato come FOUO (For Official Use Only), che offre un dettagliato resoconto delle principali operazioni militari che l’esercito statunitense ha condotto in numerose aree del mondo a partire dagli anni ’50, evidenziando l’evoluzione dell’organizzazione e delle strategie di intervento delle Forze Speciali22. Nel dettaglio, alla pag 7 del documento, vengono elencate le più importanti operazioni compiute in tutto il continente sudamericano, le Special Operations Command South, guidate dal Seventh SFG(A)23. Nel documento vengono così riportate le principali operazioni militari statunitensi intervenute in quasi la totalità dei paesi latinoamericani:

  • - 1980’s Supporting democratic governments of Central America in the fight against the insurgencies
  • - 1981-1992 Involved in Counter Insurgency Operations during the civil war in El Salvador
  • - Since 1987 Trained host nation forces from the Andean Ridge Countries in Counter-Narcotics Operations to limit drug flow and reduce violence in South America
  • - 1989 Operation “Just Cause”, assested in reestablishing law and order in Panama
  • - 1995-1998 Operation “ Safe Border”in Ecuador and Perù
  • - 1996 Counter –Narcotics Training in Mexico to stem the flow of illegal drugs to the United States
  • - 1999-2001 Trained the 2004 Man-Colombian- Conuter Narcotics Brigade of the Colombian Army
  • - 2008 Operation “ Willing Spirit” , Hostage Rescue, Colombia
  • Conclusioni

    Alla luce di quanto detto, dunque, appare comprensibile il perché della preoccupazione che desta questa militarizzazione statunitense in molti esponenti politici e in ampie fasce della società civile di alcuni paesi sudamericani, a cominciare dal Venezuela, che vedono in essa un’ennesima manifestazione di ingerenza da parte del governo di Washington, legata alla necessità degli statunitensi di garantirsi una voce in capitolo circa l’evoluzione politica ed economica di vaste aree del continente. Il Venezuela, in particolare, vede nelle localizzazioni brasiliane e colombiane dell’esercito statunitense una chiara volontà di accerchiamento, che porta con sé un messaggio evidente circa l’attenzione che Washington nutre nel processo politico venezuelano, che si trova ad affrontare un momento cruciale sia a livello interno che internazionale, dopo la morte di Chávez24.

    E i rapporti tra il neo presidente venezuelano Maduro e il presidente Obama non sembrano essere particolarmente distesi. Dopo l’incontro tra i due leaders nel maggio scorso, il presidente sudamericano ha definito Obama come “the grand chief of devils25. Numerose poi le voci, non solo provenienti dall’America Latina, che vedono in questo rinnovato interesse americano per i cugini del sud una risposta al percorso politico che i paesi latinoamericani hanno intrapreso a partire dal 23 maggio 2008, quando, con il Trattato di Brasilia, si è dato vita all’UNASUR, che ha, tra i principali obiettivi, la creazione di una zona di libero scambio di merci fra i paesi aderenti; la creazione di una moneta unica entro il 2019; la creazione di un passaporto unico. Una scelta legata alla necessità di dar vita ad un sistema politico multipolare, in grado di aumentare la possibilità di manovra in campo internazionale, e chiaramente motivata anche dalla volontà dei paesi sudamericani di “sganciarsi” dall’influenza nordamericana nell’ambito delle possibili soluzioni da dare ai problemi interni alla regione.

    Da qui la necessità degli Stati Uniti d’America di salvaguardare i propri interessi nella regione sudamericana, di natura economica e politica. E il dispiegamento di forze militari nel cuore delle aree di maggiore interesse garantiscono agli Stati Uniti un controllo diretto che permette ampie possibilità di manovra al fine di non perdere terreno in differenti ambiti di interesse, maggiormente perseguibili godendo di una presenza “reale”. Ciò, di fatto, pone gli Stati Uniti in una posizione privilegiata rispetto alle altre potenze economiche mondiali circa le possibilità di controllo dei propri interessi nella regione. Interessi che rendono particolarmente ostile la politica estera statunitense nei confronti di questa scelta di unità “continentalistica”26 operata dai paesi sudamericani.

    Alla luce di quanto detto, appare evidente come si stia disputando una delicatissima partita nel continente sudamericano, che porta con sé sfide ma anche rischi di portata mondiale. Interessante è, anzitutto, guardare l’evoluzione delle decisioni di politica estera americana legate allo straordinario percorso di crescita politica ed economica che molti degli Stati sudamericani stanno affrontando. E se, storicamente, sono sempre stati gli Stati Uniti i principali attori in quest’area del mondo, l’affacciarsi di altre potenze mondiali, alcune di queste emergenti, particolarmente attente alle possibilità, principalmente economiche ( ma non solo), offerte dall’America Centrale e Meridionale, fanno sì che gli interessi in gioco siano sempre più importanti, con l’esito di rendere sempre più ardita la previsione delle mosse che, nel prossimo futuro, saranno adottate sul “tavolo da gioco” latinoamericano. E se gli Stati Uniti, da un lato, non sembrano voler rinunciare ai propri interessi in gioco in America Latina, dall’altro lato questi devono confrontarsi con la volontà dei paesi emergenti dell’area di non voler arretrare sulla strada che porta ad una sempre più forte autonomia ed emancipazione sullo scenario internazionale.


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