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Non esiste un fatto religioso allo stato puro, è sempre contemporaneamente storico, sociologico, culturale, economico, psicologico
e, per tutte queste ragioni, politico.
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Il rapporto Religione e Politica
Adam Smith e Ibn Khaldoun, separati da 4 secoli, consonanti su organizzazione del lavoro, commercio, ruolo dei mercati e sistema dei prezzi.
Cardine della nostra società è che Politica e Religione devono essere tenute separate, a questa convinzione si accompagna la certezza che sia la formula per il migliore dei mondi possibili. Nell’Islam la religione è la via di realizzazione dell’umanità, a questo si accompagna la convinzione che la società resta unita, priva di conflitti, quando è la religione a fare da collante. L’opposizione di queste due concezioni sfida la natura dello stato-nazione concepito dal pensiero occidentale e promosso in ogni zona del pianeta.
Con la creazione di stati-nazione, i confini vennero imposti con indifferenza per le etnie, le “patrie” locali, i legami tribali, il nomadismo. Gli stati-nazione pensati dall’Occidente modificano i sistemi produttivi, destrutturano solidarietà, attraggono coloro cui la vita è radicalmente Trasformata verso le città che diventano sempre più grandi nei quartieri poveri e abbandonati alla criminalità. Sebbene la Umma, la comunità dei credenti, fosse un ideale, l’imposizione di confini concreti nei paesi arabi fu assimilabile a una ferita all’identità.
La modernizzazione è stata perseguita nell’indifferenza per il pensiero islamico al quale, diversamente dal più lontano passato, è stata data una posizione subalterna; non considerarlo una componente contributiva e persistere nella svalutazione è l’origine della rivolta islamista.
Le analisi superficiali considerano le manifestazioni nel 1979 a Teheran, degli studenti islamici che aprirono la via alla rivoluzione di Khomeini, come primo sintomo di una rivolta contro il “moderno”. Inoltre, con eccesso d’incomprensione, taluni pongono la rivoluzione iraniana come atto di nascita dell’ Islam “politico”, quasi che in questa religione fosse possibile una separazione fra politico e privato.
Le grandi capitali furono sorprese dal manifestarsi di non trascurabili correnti critiche nei confronti dell’Occidente, nonostante i primi movimenti islamisti fossero nati alla fine della prima guerra mondiale, in Pakistan il Tablig e in Egitto i Fratelli Musulmani. Il sentimento di disillusione nel mondo arabo andava crescendo dal 1967, quando la sconfitta inflitta da Israele alla coalizione di Egitto, Siria e Giordania nella Guerra dei Sei Giorni aveva reso evidente che l’Occidente si sarebbe sempre schierato a fianco di Israele, uno stato voluto utilizzato e protetto dalle grandi potenze occidentali con la connivenza dell’Unione Sovietica; disillusione accentuata assistendo, poi, all’annientamento del Libano e del movimento di liberazione della Palestina.
Per decenni le masse arabe, e la Persia con la monarchia Palhevi, sono state dominate da classi politiche inamovibili: sostenute – o tollerate entro certi limiti come il regime di Muhammar Gheddafi – dall’Occidente. Le Primavere Arabe non sono state un imprevedibile “risveglio”, ma la tracimazione dello scontento e la conseguente richiesta di una più decente applicazione di quegli stessi principi che l’Occidente aveva introdotto con la creazione degli stati-nazione arabi.
Nel tempo, con l’attivismo pervasivo dell’industria dell’informazione, le opinioni pubbliche dei paesi islamici si sono disposte secondo vari gradi di adesione ai punti di vista, agli stili di vita, alle narrazioni degli eventi proposti dai media internazionali; da questo derivano conflitti interni alle varie realtà che, sbrigativamente, vengono trattati come conflitti a sfondo prettamente religioso. La percezione internazionale dei tumulti delle piazze si è limitata alle richieste di avvicendamento delle leadership e di riforma dello stato, auspicando la nascita di governi più inclini a concedere, all’interno, le libertà civili e più capaci di ristrutturare i legami economici internazionali secondo le regole della globalizzazione economica.
Lo scontento riformista, però, era solo la parte più evidente, o volutamente evidenziata, di un rifiuto più profondo. Larga parte della ribellione era contro “l’Islam del compromesso” attuato dalle leadership arabe, da governi forzatamente oppressivi per mantenere intatti i confini e condurre una politica di collaborazione con l’Occidente. In Egitto la destituzione di Mohammed Morsi, presidente eletto ma non gradito a organizzazioni internazionali come il Fondo Monetario, con il generale Abd Alfattah Al Sisi attraverso un colpo di stato militare è esempio calzante di una politica araba eterodiretta.
Esisteva nelle primavere arabe uno spazio di ribellione non riducibile alle sole motivazioni economiche e libertarie, ma esteso a una esigenza di recupero della dignità e della propria specificità; la riconferma della fonte islamica del Diritto, la Sharia, nelle nuove Costituzioni ne è una conferma. La conseguenza del persistente l’atteggiamento svalutativo e impositivo dell’Occidente è l’aver impresso vigore alla rivolta contro lo statò-nazione che si manifesta nell’azione delle organizzazioni combattenti transnazionali, come riconosce anche l’ Economist
Weltanschauung in collisione
I principi dell’Etica Protestante (incorporata nel sistema capitalistico dalla nascita e persistente in quel che ne resta) pongono al centro dell’esistenza umana il lavoro, l’impegno e la ricerca della riuscita economica; la ricchezza raggiunta diventa conferma dell’aver ben operato e segno tangibile della grazia divina meritata. Per l’Islam, al contrario, i beni stessi sono parte del patto di Dio con gli uomini: il dio dispensa e l’uomo amministra secondo le regole date. Queste regole impongono all’uomo di non impoverire se stesso e di non accumulare per sé con indifferenza verso la società. Il guadagno e i possessi devono essere purificati attraverso l’elemosina, sottrarsi a questo comando è infrangere un pilastro della Fede.
E’ evidente che dai nuclei dell’etica entrambe le culture nel tempo si sono largamente discostate. In Occidente non più il lavoro, ma le speculazioni creano la ricchezza, non la grazia divina è perseguita, ma la liberazione dalla responsabilità nella gestione delle risorse, così come la corruzione e le astuzie che aggirano il Diritto Islamico traboccano dall’altra parte. Gli sceicchi di Dubai sono quanto di più lontano si possa immaginare dal “borghese” pilastro della comunità come lo disegna l’etica islamica, quanto gli operatori di Wall Street, inventori dei prodotti “derivati” che hanno defraudato migliaia di persone, sono mille miglia lontano dal severo imprenditore dell’etica calvinista.
Tali deviazioni dai principi originari s’incontrano e collaborano al di sopra delle popolazioni che nominalmente rappresentano e hanno voce determinante nelle Istituzioni nazionali quanto in quelle internazionali.
Non abbiamo famigliarità con la Weltanshaung islamica, la rappresentazione dei musulmani è superficiale e dal 2001 sempre più spesso diffamatoria: l’ossessiva richiesta di dichiarazioni di condanna del terrorismo, la diffidenza verso i simboli esteriori, come il velo femminile o la gestualità della preghiera, l’ostracismo alle moschee considerate fabbriche di terroristi.
Non si considera indispensabile che gli intellettuali islamici si misurino con gli intellettuali laici d’Occidente in una – quanto mai necessaria – critica della modernità. Si guarda, se mai, agli integrati, mentre tra opposizione jihadista e assimilazione culturale c’è uno spazio da esplorare. L’evoluzione sul piano collettivo avviene attraverso la critica e l’autocritica e richiede all’Occidente di riconoscere l’esistenza del mondo islamico come una forza contributiva anziché come una realtà aliena da conquistare o depotenziare. Tale incapacità, o non volontà, di porsi in relazione paritaria è un combustibile che mantiene vivo il fuoco del jihad.
E’ opportuno sottolineare ancora una volta che se si è giunti alla fase dello scontro con organizzazioni islamiste armate come l’ISIS che sfida l’Occidente – chiamando in causa per nome Obama, Cameron, Hollande – è perché per mezzo secolo non si è voluto comprendere che l’iniziale ostilità era rivolta alle élite arabe che dall’Occidente traevano legittimità e potere. Oggi si continuano a ignorare le ragioni di questa escalation e si affronta la sfida sul piano militare. Al Qaeda, Isis e tutte le altre sigle combattenti non potranno mai vincere contro la potenza militare mondiale che di fronte a loro serra i ranghi: Europa, America, Australia, Russia, India, Cina, ma altrettanto impossibile sarà il loro annientamento fino a che resteranno intatte le cause. Quello verso cui palesemente conduce questa prassi anchilosata è un clima di “guerra permanente”.
La concezione del Tempo
Abbiamo detto all’inizio della diversa concezione del ruolo della Religione nella società di cui l’Occidente non tiene conto o palesemente osteggia, ma c’è un’altra differenza completamente ignorata: l’ideazione del Tempo relativamente agli avvenimenti. Per noi, un’aspirazione sociale nasce incorporando aspettative di anni, forse decenni ma sempre entro lo spazio dell’esistenza umana, mentre i movimenti islamici evidenziano un completo sganciamento da questa durata. L’ottenimento, secondo questa visione, è certo in un futuro non precisamente collocato, di cui essi stanno accumulando fasi della realizzazione.
Dabiq è una forma di propaganda a un livello diverso di quello dei video delle decapitazioni, molto articolata, la cui funzione, probabilmente, è rivolgersi all’interno dell’islamismo combattente a scopo di formazione ideologica.
Quando i nostri media traggono dalle dichiarazioni di Al Adnani, portavoce ufficiale dell’ISIS, proclami come “Conquisteremo la vostra Roma, renderemo schiave le vostre donne…” inducono immediatamente nel pubblico o il disprezzo per una minaccia delirante o l’angoscia per una prospettiva intesa come immediata; entrambe le reazioni producono consenso ad altrettanto immediate risposte armate dai governi.
Quello che Al Adnani, e i suoi seguaci, intendono con questo o altri simili slogan si comprende dal seguito “Se non saremo noi a instaurare quel tempo, allora saranno i nostri figli e nipoti raggiungerlo”. Ovvero: non Al Baghdadi cercherà di arrivare a Roma per vendere al mercato degli schiavi i nostri figli, ma i suoi pronipoti lo faranno, è incrollabilmente certo secondo questa visione, con i nostri discendenti. Interessante notare che l’articoli di DABIQ4 che tratta dei “Romani” esplicita che la parola designa tutti i Cristiani, inoltre la mitopoiesi islamista allude a un periodo in cui musulmani e cristiani lotteranno, ciascuno per proprio conto, contro un nemico comune.
La “guerra permanente” è perfettamente contemplata nella certezza di una vittoria non collocata nel calendario e annunciata come un progressivo percorso di “punizione”. “Americani, Europei, lo Stato Islamico non ha iniziato una guerra contro di voi, come i vostri governi e i media cercano di farvi credere. Siete voi che avete iniziato a trasgredire contro di noi, quindi siete in colpa e pagherete il giusto prezzo. Pagherete quando le vostre economie crolleranno. Pagherete il prezzo quando i vostri figli saranno mandati a fare la guerra contro di noi e vi ritorneranno disabili, amputati o dentro una bara, o malati mentali. Pagherete il prezzo, quando avrete paura di viaggiare in qualsiasi paese. Quando camminerete per le vostre strade guardandovi intorno, a destra e a sinistra, pieni di paura”. La deduzione da trarre urgentemente è che la risposta armata dell’Occidente è esattamente ciò che i gruppi islamisti e l’ISIS vogliono provocare.
Guerra al terrorismo e strappi al Diritto Internazionale
La “Guerra al terrorismo internazionale” è una nuova forma di conflitto lanciata da George Bush il 14 settembre 2001 (video) con la quale avviò l’esportazione di quella che Robert Fuller chiama l’ossessione americana: la demonizzazione del nemico come incarnazione del male e la caccia agli evil doers. Per il cristiano rinato Bush i “cattivi” presero connotati religiosi: gli islamisti.
G.Bush nella cattedrale di Washington lancia la “War on terror”
Simbolicamente, infatti, il discorso venne pronunciato nella cattedrale di San Pietro e Paolo a Washington.
In quel frangente, l’Occidente scordò il laicismo per una commistione Religione, Politica, Guerra, che gli islamisti definiscono Crociata.
La guerra al terrorismo internazionale non avviene fra stati-nazione, ma fra Stati e una galassia di formazioni, alleate o nemiche esse stesse, e, come vedremo, in questa guerra ogni cittadino può essere sospettato come un potenziale nemico. Dal punto di vista giuridico, la guerra al terrorismo non è adeguatamente contemplata, perché il Diritto internazionale considera solo due tipi di conflitto armato, quello internazionale tra Stati e quello non internazionale di uno Stato verso gruppi armati organizzati entro i suoi confini.
E’ una carenza giuridica di poco conto? In guerra si uccidono “legittimamente” i combattenti, ovvero i membri delle forze armate dello Stato nemico, oppure quelli che palesemente appartengono ai gruppi armati. Tutti gli altri sono civili che è illegittimo colpire. I principali strumenti internazionali che si occupano dei conflitti armati non fanno riferimento ad azioni belliche condotte da uno Stato contro un gruppo armato transnazionale, o presente in un’altra nazione. Come possibile, pertanto, distinguere fra combattenti e civili? Spiegano i giuristi che il termine “guerra al terrorismo” è improprio perché ci si trova di fronte a un conflitto in cui manca un nemico preciso, mancano obiettivi definibili in termini territoriali o di diritto internazionale, manca una scala temporale. Quest’ultimo requisito mancante si sovrappone perfettamente e coopera con la concezione del Tempo da parte degli islamisti, come prima spiegato.
La Risoluzione ONU 1624, 14 settembre 2005, venne in soccorso all’illiceità invitando ogni Stato a proibire per legge l’istigazione al terrorismo, a non dare rifugio ai terroristi, a continuare il dialogo tra civilizzazioni, religioni e culture e a prendere le misure necessarie per far fronte al terrorismo motivato dall’estremismo e dall’intolleranza nel rispetto dei diritti dell’uomo, dei rifugiati e del diritto internazionale umanitario. Come si può bene capire, tra “misure necessarie” e “rispetto dei diritti” c’è la discrezionalità. Lo studioso Pino Arlacchi, nel saggio L’inganno e la paura. Il mito del caos globale, sottolinea maggiormente due lacune taciute, la difficoltà a etichettare comportamenti che per alcuni sono terrorismo per altri lotta di liberazione e l’evidenza che i membri dell’ONU etichettano e sanzionano le azioni violente dei gruppi “privati”, ma tralasciano di discutere dei propri comportamenti anche quando palesemente sconfinano nel terrorismo. I droni di cui ampiamente si servono gli Stati Uniti in Pakistan e in Afghanistan provocando decine e decine di vittime innocenti bastano a giustificare quest’ultima accusa.
“Non cambieranno il nostro stile di vita” ?
Fin dall’attacco alle Torri Gemelle, l’affermazione ricorrente fra i governanti è stato quest’orgoglioso e rassicurante “non cambieranno il nostro stile di vita”. Invece sì, lo hanno cambiato e non solamente nelle piccolezze del nostro modo di vivere; con la dichiarazione di “guerra al terrorismo” è cambiata l’applicazione dei principi cardine della democrazia. I cambiamenti dello stile di vita sono cominciati paventando risibili possibilità, ricordiamo le liste di proscrizione di oggetti nelle cabine degli aerei di linea, bandite le terribili forbicine per le unghie e i coltellini svizzeri, cui seguì l’introduzione dei body scanner. Con la guerra al terrorismo è stata falcidiata l’industria del turismo, è aumentata l’immigrazione, sono nate tensioni sociali e nuove forme di xenofobia. La privacy ufficialmente garantita è arbitrariamente violata: il controllo dell’ intelligence sui cittadini negli Stati Uniti è ampiamente noto, meno ricordate sono le norme federali che consentono l’arresto sulla base di semplici sospetti e la detenzione senza limiti di tempo introdotta dal Patriot Act e modifiche successive. Major dell’informatica e motori di ricerca come Microsoft, Google e diramazioni hanno una fattiva cooperazione con la National Security Agency; può essere capitato a tutti di ricevere messaggi come “sito non sicuro” , “attenzione malware” cercando di visitare importanti siti di contro informazione.
Messa in ginocchio l’indipendenza operativa in materia di sicurezza: il caso più noto è quello dell’egiziano Abu Omar rapito a Milano da dieci agenti americani con la collaborazione dei nostri servizi segreti. In Italia “la definizione di strategie di contrasto del terrorismo internazionale svincolate dai parametri tradizionali della repressione penale ha avuto come conseguenza la pericolosa tendenza a prevedere il ricorso a strumenti di repressione preventiva di condotte che di per sé possono non integrare i requisiti minimi di una condotta punibile.” (*)
Indotti progressivamente ad accettare norme sempre più restrittive in merito alla “sicurezza nazionale”, non avvertiamo chiaramente la perdita d’identità democratica nei paesi occidentali. Di espressioni diventate famigliari “ intervento umanitario” “esportazione della democrazia”, “missione di pace” trascuriamo di percepire in che cosa effettivamente consistono; esse danno alla guerra contro le cangianti sigle jihadiste una liceità che era stata sottratta alla guerra tradizionale con la creazione delle Nazioni Unite. Questa impostazione ha comportato un’enfatizzazione del ruolo della prevenzione dei rischi per la sicurezza dello Stato che in precedenza era un’accusa rivolta ai regimi totalitari e un caposaldo della propaganda contro l’Unione Sovietica. Il terrorismo jihadista ha mostrato quanto può divenire fragile il rispetto dei diritti umani e civili nelle nazioni che si propongono al mondo come modello democratico. Non era precisamente questo l’obiettivo che si proponevano i terroristi, ma così è avvenuto.
Fonti bibliografiche
Libertà e Sicurezza nell’era del terrorismo internazionale,
Antonella Grieco
Strumenti di contrasto del terrorismo internazionale e tutela dei diritti umani, l’esperienza italiana,
Andrea Caligiuri (*)
Who Are We at War With? That’s Classified ,
Cora Currier per Pro-Publica
Failure of top-down modernisation and disintegration of post-colonial national borders have cost the region dearly.
Soumaya Ghannoushi
Convenzione di Ginevra relativa al trattamento dei prigionieri di guerra, 8 dicembre 1949
Usa – Patriot Act 2001/1 & 2001/2 — Patriot Act 2005/1 & 2005/2 & 2005/3 - testo italiano
Estratti da DABIQ4 . PDF testo italiano