“Ho cominciato a domandarmi come sarebbe ritrovarsi prigionieri nella realtà anziché nella fantasia, e sono giunto alla conclusione, sorprendente e inquietante insieme, che a condizione di poter leggere e scrivere ciò che mi aggrada, e di avere un compagno di cella amabile (o meglio ancora una condanna alla prigionia in isolamento) non troverei la cosa affatto terribile come dovrei.” (Bernard Levin)
E’ quanto pensava e aveva annotato Levin, giornalista, intellettuale, uomo di cultura, molto tempo prima di ammalarsi.
In parole estremamente semplici – scrive Arianna Huffington, colei che è stata nella vita reale l’amorevole compagna di Levin – dinanzi alla malattia (nel caso specifico l’’Alzheimer) e, cancellati per gradi nel tempo i ricordi, anche quelli più importanti come può essere il riconoscimento della persona amata, con cui hai condiviso momenti fondamentali dell’esistenza, emerse semmai nell’uomo via via una presenza emotiva intensa,differente da tutti i precedenti aspetti conosciuti prima ( le doti intellettuali di Levin).
Come se la persona si fosse liberata dai legacci di quell’instancabile prigione ,che è l’intelletto, e avesse trovato una nuova vita al di là dell’intelletto stesso.
La dimensione di ciò che noi e i più chiamano “spirito”.
Per quel che può o potrebbe malauguratamente riguardarci la “cosa”, come non porsi, allora, questo genere di interrogativo, specie se ci troviamo al capezzale di un malato, o condividiamo comunque, in qualche modo, il suo stato e/o la sua condizione ? (m.m.)
a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)
In alto, a corredo del testo, l'immagine di Arianna Huffington e Bernard Levin