La prima notte di quiete. Tra nichilismo e vita salvata

Creato il 08 agosto 2013 da Tiba84
Capolavoro di Valerio Zurlini, La prima notte di quiete è stato probabilmente il film più bello della rassegna estiva del cinema in Piazza Maggiore a Bologna. Rassegna dedicata, implicitamente, alle prospettive di futuro, alle aspettative tradite, ai sogni distrutti dal sistema economico-capitalista che ha creato disvalori e annientato i valori della vita: lo si può evincere dai film che hanno iniziato e concluso il cinema in piazza di questa torrida estate bolognese, Zabriskie Point - viaggio verso il nulla della distruzione indotta -, e Fitzcarraldo, in cui i sogni del protagonista trovano una realizzazione benché incompleta.
Vero apice di questo percorso, quindi, non poteva che essere La prima notte di quiete, imperniato com'è sulla storia di un'adolescente priva si sogni e speranze e dal presente oscuro.
Perché il vero fulcro del film non è il professor Dominici (Alain Delon), che pure è la figura su cui si concentra maggiormente la macchina da presa, arrivando a descriverla negli aspetti più minuti e particolari, ma piuttosto la giovane e bellissima Vanina (Sonia Petrova). La sua vita è davvero al centro del film, con il mistero che essa si trascina sempre dietro: in una delle prima scene, nella scuola, il professore commenta il tema che la giovane ha scelto, unica in tutta la classe, su Manzoni, preferendo non parlare di se stessa. Il regista vela la vita della protagonista: non si sa nulla, ma si vede che qualcosa non funziona. Non è una vita normale. Tanto che colpisce, oltre che per la sua bellezza disarmante, il giovane professore, un uomo che non ha niente, se non un ricordo e una vita distrutta. Incarna il niente, lo veste in quel cappotto di cammello, lo recita nella camminata a capo chino: esprit decadente di un decadimento personale già avvenuto e da cui non si esce (gli assegni a vuoto, il vizio del gioco, un amore inutile). Rimini è il luogo ideale: una provincia distrutta, che si anima la sera tra bische clandestine, festini a base di droga e sesso, milioni (all'epoca) spesi nell'illegalità, vita notturna che sconfina nella quotidianità, fino a distruggere le vite dei protagonisti. Tra i vari, sicuramente vanno menzionati Lea Massari, Alida Valli (come inarca quel sopracciglio!) e Giancarlo Giannini (strepitoso!).
Tuttavia il film ritorna sempre sulla storia dei due protagonisti: il nulla li unisce, come se comunicassero attraverso un dolore interno che è incomunicabile, che agli altri arriva solo come segno esteriore su cui ironizzare meschinamente, o da sfruttare subdolamente. Sono due contro tutti, quindi. Perché tutti vivono la situazione di nichilismo della provincia italiana, vera e propria società allo sbando, immagine di quello che nel giro di 10 anni diventerà l'Italia (oggi, poi, non ne parliamo). Mentre tutti vi sono immersi, i due protagonisti sembrano avere qualcosa in più per sfuggirvi. Da un lato soggiacciono disarmati alla crudeltà dell'altro (che è la crudeltà della moglie, della madre, degli amici, del gruppo, dei compagni di scuola...): simbolo di una violenza fredda piena di emozione; dall'altro vivono a fondo il nichilismo, in una condizione di tormento che però in loro li porta fuori "a riveder le stelle", nell'estasi liberatoria. Oggetto di questa liberazione sono i corpi, è la corporeità, che svuota il nichilismo e lo fa girare a vuoto. La violenza mette a nudo, così, la creaturalità e attraverso di essa apre una via di salvezza. Via di liberazione dai tormenti non è l'intelligenza razionale, ma la vitalità dei corpi umani. Non di tutti i corpi in quanto tali, ma di quei corpi deboli martoriati dalla profondità di un dolore sordo, la cui sensibilità permette di salvarsi là dove il nichilismo gira a vuoto, in un paradosso intellettuale che trova nella creaturalità l'estasi della vita.
Questo paradosso si rivede in due scene del film, quando il vuoto delle vite dei protagonisti si rovescia nella centralità dei corpi. La prima scena (non nell'ordine cronologico del film) è quella del ballo in discoteca, in cui tutto, anche la musica, indica la distruttività di una relazione molteplice ed impossibile, ma che trova nel corpo della ragazza al centro della pista il nucleo forte della vita.
La seconda scena è quella di fronte alla Madonna del parto di Piero della Francesca, in cui la corporalità della Madonna è mostrata nella sacralità della gravidanza del figlio di Dio.
Entrambe le scene raccontano il film, gli fanno da contraltare, in qualche modo, dando alla decadenza una via di fuga, facendo girare a vuoto il nichilismo e la decadenza della provincia italiana. E il film è tragico, quindi, non tanto per la conclusione, ma per questo nucleo creaturale: il corpo come "straripante senso di vita e di forza, all'interno del quale persino il dolore agisce come uno stimolante" salva. E la tragedia diventa un "dire sì alla vita, persino nei suoi problemi più oscuri e più gravi, [vera] volontà di vivere che, nel sacrificio dei suoi tipi più elevati, si allieta della propria inesauribilità".
Il dolore è santificato: le sofferenze della partoriente santificano il dolore in generale - ogni divenire, ogni crescere, tutto ciò che sia garanzia d'avvenire implica il dolore. Affinché esista il piacere del creare, affinché la volontà di vita affermi se stessa eternamente, deve esistere eternamente questo dolore della partorente (F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli)
Il film esprime questo aspetto, lo esplora fino in fondo, lo vive, lo rappresenta. E lo rovescia nella corporalità dei protagonisti, e nell'affresco citato. Il nichilismo si rovescia. E dà un senso di completezza alla nostra vita. Non per niente è un capolavoro!

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