Ci sono cose che la Tate fa davvero bene, come riconoscere il giusto merito a grandi artisti dimenticati dalla storia dell’arte – soprattutto quando si tratta di donne. E così, dopo Marlene Dumas, Agnes Martin e la superlativa Sonia Delaunay, è finalmente arrivato il turno della figlia del Modernismo britannico, Barbara Hepworth (1903-1975).
L’ultima volta che la galleria d’arte londinese le aveva dedicato una mostra, infatti, era il 1968 e Barbara non solo era ancora viva, ma aveva persino contribuito ad organizzarla. E allora ben venga Barbara Hepworth: Sculpture for a Modern World, un magnifico viaggio in settanta opere nel mondo della First Lady del Modernismo. Dalle prime sculture ancora vagamente antropomorfe come Two Doves (1927), che ancora risentono dell’influenza dei pionieri delle avanguardie che l’hanno preceduta, alla sublime essenzialità delle sculture astratte che l’hanno resa famosa, per arrivare alle forme totemiche degli ultimi anni, la mostra esplora cronologicamente l’evoluzione della sua arte.
Nata nello Yorkshire nel 1903, Barbra Hepworth è con il suo contemporaneo (e conterraneo) Henry Moore (1898-1986), una delle figure chiave della scultura del XX secolo. Come Moore anche Barbara studia alla Leeds School of Art prima di trasferirsi a Londra, al Royal College of Art, e come Moore, grazie ad una borsa di studio che le permette di viaggiare, visita Firenze, Siena e Roma, dove vive per tre anni con il primo marito, lo scultore John Skeaping (1901–80), che sposa nel 1925.
È il 1928 quando Skeaping e la Hepworth rientrano a Londra dal soggiorno italiano. Si stabiliscono nel quartiere di Hampstead, al nord della città, dove continuano a lavorare e ad esporre insieme le loro opere nelle gallerie d’arte della Capitale. Ma il matrimonio non è destinato a durare ed è solo questione di tempo prima che Barbara incontri l’amore della sua vita, il pittore Ben Nicholson (1894-1982). E insieme daranno vita ad una delle più straordinarie collaborazioni artistiche della storia dell’arte. Quello tra Nicholson e la Hepworth è un dialogo aperto che sembra non interrompersi mai: Nicholson disegna e dipinge incessantemente il profilo della moglie, e lei a sua volta riecheggia i dipinti del marito nelle sue sculture.
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Doves (Group), 1927, Parian marble, Manchester Art Gallery © Bowness
Come Jacob Epstein (1880-1959), Eric Gill (1882-1940) ed Henri Gaudier-Brzeska (1891-1915) prima di lei, anche la Hepworth degli anni Venti e Trenta è appassionatamente modernista. E come i suoi predecessori, anche lei crede nel direct carving, la scultura diretta, una tecnica introdotta da Constantin Brancusi nel 1906 che rivoluziona la secolare tradizione accademica che prevedeva la creazione di un modello in terracotta precedere l’opera finita. E come i suoi predecessori, anche la Hepworth crede appassionatamente nella fedeltà alla materia e nelle qualità tattili che solo il direct carving riesce ad esprimere.
E di materia in questa magnifica retrospettiva ce n’è in abbondanza: marmo, legno, pietra, bronzo – una materia così liscia e levigata che sembra fatta apposta per essere toccata, cullata, abbracciata. E basta osservare opere come Pelagos (1946) o Squares with Two Circles (1963) per comprendere che sue sculture sono fatte per essere avvolte dall’aria e dalla luce, esistono pienamente solo quando in armonia con l’ambiente circostante. Quando la Hepworth scolpisce, non crea solo una forma, ma anche lo spazio e la luce che la circondano. E quando crea un’apertura nella forma, crea un passaggio che permette alla luce e allo spazio di circolare non solo attorno alla forma, ma attraverso la forma stessa.
Questo della spazialità della forma è un concetto ben noto ai giganti del Modernismo come Picasso, Braque, Brancusi e Jean Arp che la Hepworth e Nicholson avevano visitato nei loro studi durante un viaggio in Francia nel 1933. Appassionatisi alla rivoluzione della scultura francese guidata a Parigi e folgorati dalla sua purezza formale, i due si uniscono nel 1933 al gruppo francese Abstraction–Création e, una volta tornati in Inghilterra, fondano con Paul Nash il gruppo Unit One che univa architetti, pittori e scultori seguaci di movimenti come il Costruttivismo e il Surrealismo. Ma è solo con l’arrivo nella capitale Britannica di un nutrito gruppo di espatriati europei in fuga dalle persecuzioni naziste come Naum Gabo, László Moholy-Nagy, Marcel Breuer e Piet Mondrian (che nel 1938 è ospite degli stessi Hepworth e Nicholson) attirati dal costo allora relativamente basso delle abitazioni che il Modernismo britannico finalmente decolla. Perché la pace e tranquillità di Hampstead, unita alla sua bellezza collinare, avevano attirato sin dal XIX secolo artisti ed intellettuali come John Constable e John Keats, è solo negli anni Trenta del Novecento che il quartiere diventa il vero e proprio covo di una comunità di artisti d’avanguardia e di intellettuali progressisti e di sinistra. Non a caso, questi sono gli anni che vedono sorgere vere e proprie icone dell’architettura modernista come l’Isokon Building in Lawn Road, progettato dall’architetto del Bauhaus britannico Jack Pritchard e che conta tra i suoi inquilini nientemeno che Agatha Christie, e la controversa abitazione in cemento e mattoni al numero 2 Willow Road, costruita da Erno Goldfinger (su cui il romanziere Ian Fleming modellò l’omonimo ‘cattivo’ di 007).
Ma la strada del successo non è facile per una donna all’inizio del XX secolo, anche se questa si chiama Barbara Hepworth. Le cose si fanno particolarmente difficili quando, nel 1934, Barbara da’ alla luce tre gemelli: la mancanza di denaro, lo stress della maternità, e soprattutto la mancanza di tempo e di spazio mentale per creare si fanno sentire. Costretta a lavorare di notte, l’artista è sul punto di rinunciare all’arte, alla scultura e a tutto quello per cui aveva lottato fino a quel momento.
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Le cose cambiano quando, alla vigilia della seconda guerra mondiale, la coppia si trasferisce in Cornovaglia, vicino a St Ives, che proprio in quegli anni si stava sviluppando in una vivace comunità artistica. Il selvaggio paesaggio della regione risveglia in Barbara potenti ricordi dello Yorkshire della sua giovinezza e ritorna a scolpire con rinnovata energia. Acquistato uno studio nella cittadina costiera, vi resterà anche dopo il divorzio da Nicholson, avvenuto nel 1951. E proprio nel suo amato studio, nel 1975, un terribile incendio (causato forse da una combinazione di sonniferi e sigarette) pone la parola ‘fine’ alla vita della primadonna del Modernismo.
Ma tanto si è parlato di questo suo legame con il Modernismo in questa mostra, che quando si arriva agli anni Sessanta e al momento in cui la Hepworth emerge come artista completamente formata, non resta più molto spazio a disposizione da dedicare alle sue opere più iconiche. E il fatto poi che siano gigantesche e impossibili da spostare non aiuta. Come la mastodontica Single Form (1961-64) per esempio, che torreggia davanti al palazzo delle Nazioni Unite a New York: di certo la sua scultura più rappresentativa, per dimensioni e significato. Ma anche una che, date le dimensioni, non può essere mossa.
La mostra termina (in modo vagamente affrettato) con la parziale ricostruzione del padiglione di Otterlo, nei Paesi Bassi, creato nel 1965 dall’architetto Gerrit Rietveld per le sue sculture in bronzo “per creare una perfetta integrazione tra Architettura, Natura e Scultura” , per usare le parole della Hepworth. Ma anche non è stato possibile portare all’interno delle sale la natura selvaggia dello Yorkshire o della Cornovaglia (o, in misura minore, di Hampstead…), è impossibile uscire da questa mostra senza sentirsi comunque pervasi da una sferzata di pura energia vitale…
Pubblicato su Londonita
By Paola Cacciari
Londra//fino al 25 Ottobre 2015
Tate Britain,
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