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La produzione della conoscenza e la conoscenza della produzione

Creato il 29 ottobre 2014 da Francosenia

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Il disvalore dell'ignoranza
- "Critica del valore" tronca come ideologia di legittimazione di una nuova piccola borghesia digitale -
di Robert Kurz

*Nota precedente all'edizione stampata* 1. Dalla critica del valore all'ideologia del circolo digitale* 2. La sorella della merce e Internet come "macchina di emancipazione* 3. Forma del valore, sostanza del valore e riduzionismo della circolazione* 4. "Scambio giusto" e relazioni d'uso capitalistiche* 5. L'anima della merce in azione: dal "ben pagare il non serio" all'antisemitismo strutturale* 6. Produzione di contenuti, costi capitalistici e "riproduttività senza lavoro"* 7. Lavoro produttivo ed improduttivo nel contesto di riproduzione capitalistica* 8. Verso un'ontologia del lavoro secondaria* 9. Il carattere sociale totale della sostanza del valore e l'ideologia del capitale "produttivo" e "rapinante"* 10. Svalorizzazione universale e teoria degli stadi di un'emancipazione simulatrice* 11. Falso universalismo ed esclusione sociale. L'ideologia dell'alternativa digitale come eldorado degli uomini della classe media trasformati in casalinghe* 12. Il punto di vista degli idioti del consumo virtuale* 13. Autoamministrazione della miseria culturale* 14. L'esproprio dei produttori e delle produttrici dei contenuti come abnegazione sociale e risentimento* 15. Termiti e formiche blu. La biopolitica della "intelligenza del formicaio" digitale* 16. Realpolitik di pauperizzazione dei candidati a capo dell'amministrazione di crisi nella cultura*

7. Lavoro produttivo ed improduttivo nel contesto di riproduzione capitalistica

Dal momento che anche Lohoff e Meretz sanno che "la riproduzione senza lavoro" del software e dei contenuti culturali, nel senso più ampio, presuppone qualcosa come "il lavoro d'informazione" ed "il lavoro di contenuto" (visto che ancora omettono, negli insiemi di riproduzione dei beni d'informazione digitale, tanto gli aggregati infrastrutturali quanto il consumo d'energia), essi arrivano senza sorprese - per quanto riguarda la definizione del carattere di questo "lavoro" o di questo "sforzo" - al vecchio problema del lavoro "produttivo" ed "improduttivo" in Marx e nella teoria economica; questione che viene affrontata per mezzo di un saggio sul tema (Peter Samol, "Lavoro senza valore", Krisis 31). Viene così raggiunto il livello d'insieme della riproduzione sociale e delle sue mediazioni. Lohoff attribuisce il lavoro d'informazione e dei contenuti ad una "produzione sociale della conoscenza". Invocando le rispettive pagine di Marx nei "Gundrisse", dove Marx parla di "attività di tipo generale" [allgemeinen Gattungsgeschäften], Lohoff arriva all'affermazione generale per cui "i lavoratori della conoscenza" avrebbero semplicemente "...dal punto di vista della teoria del valore, lo stesso statuto che hanno i giudici o i soldati, svolgendo così un lavoro improduttivo in senso capitalista" (op.cit.).
E' noto che le considerazioni di Marx sul lavoro produttivo ed improduttivo sono incomplete ed inconsistenti; pertanto, si prestano ad interpretazioni abbastanza flessibili. La mancanza di chiarezza risiede soprattutto nel fatto che Marx, in vari frammenti dedicati al tema, sembra dare una definizione determinata, sulla base di alcuni "lavori" empiricamente tangibili, riferendosi al capitale concreto o allo Stato. Ci troviamo qui di nuovo di fronte allo stesso problema, che si era già fatto notare a livello di circolazione, della falsa immediatezza della definizione di sostanza e di relazione di equivalenza. Tuttavia, non si tratta qui di un mero problema di esposizione dell'architettura teorica di Marx, ma possibilmente di un'inconsistenza reale, nella misura in cui nei frammenti di testo di Marx su tale questione emergono di fatto definizioni positiviste. Su questo c'è da dire, in primo luogo, che la differenza fra lavoro produttivo ed improduttivo non si può stabilire in forma definitoria, sulla base di determinati "lavori" particolari, ma solo in termini di teoria della circolazione, ossia, in riferimento all'insieme della riproduzione capitalista. Quest'idea era già, essenzialmente, il fondamento del mio saggio "Die Himmelfahrt des Geldes" (L'apoteosi del denaro), ma fino ad oggi non c'è stato alcun ulteriore sviluppo.
Peter Samol tocca solo superficialmente questo tema, per mezzo ancora della semplice, e molto nota, relazione fra lavoro nella produzione e lavoro nella circolazione, nella quale quest'ultimo "non sarebbe risolvibile in lavoro produttivo" (op.cit.), e con l'avvertenza che "lavoro produttivo ed improduttivo... si presentano fortemente mescolati nelle aziende delle infrastrutture" (op.cit.), senza però esaminare sistematicamente (dal punto di vista della teoria della circolazione) il problema della mediazione. Invece, come Lohoff, si basa su una definizione positivista, sulla base dei "tipi di lavoro" che sarebbero suppostamente identificabili chiaramente. Tuttavia, lo stesso "lavoro" può essere produttivo o improduttivo, non solo nel senso che supporta o meno la produzione di lucro di un capitale individuale, ma anche all'interno della propria produzione di lucro. Cosa che nel caso dei capitali di circolazione si può ancora risolvere con relativa facilità, in quanto sono alimentati dalla massa di plusvalore sociale totale, in altri casi è meno chiaro, in quanto si presenta "mescolato" o ambivalente. Questo ci riporta di nuovo al problema della riproduzione capitalistica totale, che non può essere risolto per mezzo di una semplice somma di lavori "contabilizzabili" con chiarezza come produttivi o improduttivi. Per esempio, anche lavori industriali di fabbrica, in apparenza chiaramente produttivi, possono anche essere improduttivi, se non acquisiscono una qualche domanda con capacità di pagamento; questo non è in alcun modo un problema di realizzazione di un valore in sé esistente, ma quello che succede è che è stato prodotto molto poco valore nell'insieme della società (cosa che diventa visibile solo nel contesto della mediazione), situazione che poi si "vendica" su determinati capitali individuali, oppure si ripercuote anche sull'insieme della società per mezzo della crisi. Lo stesso vale per la produzione del valore apparentemente reale, che siano automobili, case o altro, e che viene generato solo attraverso rendimenti provenienti da bolle finanziarie.
Dal momento che Lohoff e Samol non espongono nessuno sviluppo sulla base della teoria della circolazione, e che sia relazionato con l'insieme della produzione, ma forzano soprattutto delle definizioni positiviste riguardo ad una "imputabilità" suppostamente chiara (cosa, com'è noto, dovuta all'assenza di un punto di partenza nella relazione di equivalenza immediata, ideologicamente costruita sul piano della circolazione), posso anche fermarmi qui. Prima di affrontare l'importanza del "lavoro della conoscenza" di fatto improduttivo nell'argomentazione di Lohoff, bisogna segnalare l'inconsistenza di questa dal punto di vista immanente, in tre punti. Si tratta di una differenza che Lohoff in parte lascia indeterminata, in parte la imposta semplicemente in modo erroneo, cioè, a partire dall differenza tra: a) "lavori" che non aggiungono alcun valore, b) "lavori" che aggiungono valore ma che non producono plusvalore, c) "lavori" che producono plusvalore reale (essendo che nel caso di quest'ultimi si tratta di plusvalore sostanziale e non di plusvalore meramente formale di un capitale individuale alimentato a partire dalla massa di plusvalore sociale totale, come avviene nelle imprese della circolazione. La differenza tra lavoro produttivo ed improduttivo in Marx viene relazionata esclusivamente alla produzione reale (sostanziale) di plusvalore, cosa che di fatto viene ricordata da Lohoff, ma cui non si attiene.
Il primo punto "a" si riferisce alla produzione generale della conoscenza, nel senso delle "attività di tipo generale", in Marx. Nella misura in cui, nel caso di queste attività di tipo generale, non si tratta di attività di giudici, boia o di altri amabili portatori di attività generale, ma di "produttori della conoscenza" nel senso più lato, Lohoff mette in atto la stessa falsa generalizzazione che aveva già usato nel caso del teorema di Pitagora e della legge di Ohm. Non distingue fra produzione di conoscenza in generale, per esempio nelle università o nei dipartimenti di ricerca definiti fondamentali, da un lato, e la produzione specifica di conoscenza per mezzo di determinati beni, dall'altro. In realtà, la prima può anche assumere la forma di merce, per esempio quando un istituto di ricerca privato vende una conoscenza generica, ma si tratta, relativamente all'insieme della produzione, non di una conoscenza incorporabile in determinati beni, ma di una conoscenza generale che in sé non può apportare alcun valore, entrando sempre solo nelle condizioni generali di produzione di merci scientificizzate.
Diverso è il caso della produzione specifica di conoscenza per alcune determinate merci. Un momento dell'argomentazione di Marx consiste esattamente di questa differenza fra la produzione generale di sapere come "attività tipica" e la produzione di sapere che entra in una merce specifica. Tutto quello che entra nella produzione specifica di merci come "lavoro" aggiunge valore. Però, per il capitale quello che importa non è il valore puro e semplice , ma solo il plusvalore. Ci troviamo qui di fronte ad un problema particolare della produzione di conoscenza che entra in una determinata merce specifica, cosa che può essere esemplificata per mezzo delle attività di costruzione di un nuovo modello di automobile (progetto). Tale "lavoro" di costruzione è tutto meno che una "attività di tipo generale"; essa appartiene in un certo qual modo all' "insieme del lavoro" di un capitale individuale, della produzione di merci perfettamente determinata nell'ambito dell'economia d'impresa, anche se essa di per sé non si integra nel processo immediato di fabbricazione. Tuttavia, la sua incorporazione solo mediata non sta allo stesso livello della generalità delle "attività tipiche" della produzione di conoscenza, ma rimane in un certo senso immediata, in particolare relativamente al processo dell'insieme dell'economia d'impresa di produzione di una determinata merce.
Ora, il problema per la produzione di valore consiste nel fatto che quest'aggiunta di valore legato alla produzione del "progetto" è insignificante nell'insieme del lavoro dell'economia d'impresa, e per una semplice ragione: questo "lavoro" si esaurisce con la fine del progetto; esso non è ripetitivo, nel senso che non si ripete senza posa come avviene col lavoro di fabbrica per la produzione di milioni di automobili in accordo con tale "progetto". Nella quantità totale del "lavoro" dell'economia d'impresa, la quota-parte del "lavoro della conoscenza" lì incorporata resta pertanto molto ridotta. Questo, però, costituisce su questo piano un problema quantitativo, e non un problema qualitativo, relativamente al "carattere di generalità" del "lavoro della conoscenza" specifico di tale economia aziendale.
Lo stesso avviene con la produzione di "beni d'informazione" digitale. Anche questo "lavoro" si presenta, sotto forma di determinato software che viene prodotto da determinate imprese, come un prodotto-merce specifico, e non ha in alcun modo "carattere di generalità", come per esempio la conoscenza matematica, o anche la scoperta della legge di Ohm, ecc.. Il fatto per cui questo software possa essere usato per fini differenti, che questi siano, a loro volta, produzioni di merci o meno, è un altro discorso, e non ha niente a che vedere col carattere specifico di merce di questo software prodotto da una determinata impresa. La differenza, tuttavia, consiste nel fatto che a questo software non si aggiunge un qualche lavoro di fabbrica ripetitivo, e che la massa di lavoro totale, e la sua capacità di aggiungere valore, si mantengono pertanto straordinariamente ridotti, diversamente da quello che avviene nella produzione di automobili. Questo, però, si manifesta solamente sotto forma di contributo indiretto da parte della quantità di lavoro produttivo di valore in tutta la società, e anche da parte della massa di valore o di plusvalore, in quanto la produzione di questo software, specifico come merce, può rivelarsi redditizio per l'impresa che lo produce.
Lohoff, ora, con il suo concetto erroneo di "beni universali", pensa di potersi ergere ad esperto affermando: "... Robert Kurz argomenta in termini oggettivamente errati, a proposito di 'Internet come fabbrica dei sogni del nuovo mercato (Jungle World 16/2000). Qui egli concede alle pretese merci dell'informazione un valore, battendo in ritirata per mezzo di un'argomentazione meramente quantitativa. Come opera di 'pochi specialisti' la produzione di software e di altre merci di informazione non porterebbe a nessuna 'creazione di valore addizionale degno di essere riferito'" (op.cit.). Quest'affermazione di Lohoff è dovuta solo alla sua confusione fra produzione di conoscenza sociale generale e produzione di conoscenza specifica nell'economia d'impresa, incorporata in merci materiali o immateriali. Nell'ultimo caso si tratta effettivamente di un problema quantitativo. In qualche maniera, lo stesso co-autore di Lohoff, Samol, è cosciente di questo e dice a proposito: "Supponiamo che, per esempio, lo sviluppo di software consumi molto tempo. Ma in relazione alle possibilità di essere replicato quasi gratuitamente, la possibilità della sua rapida diffusione e l'ampia varietà della sua applicazione, i costi di produzione vengono incredibilmente dimiuniti. La quota-parte diventa così quasi omeopatica. Ciascuna copia isolata rappresenta, in altre parole, un valore che praticamente tende a zero" (op.cit.).
Questo è di fatto corretto ma così, in primo luogo, Samol ammette in forma indiretta che, per quanto riguarda il carattere del valore della produzione di software nell'economia d'impresa, si tratta di un problema quantitativo. In secondo luogo, però, questo problema nasce solo in un contesto relativamente al quale, tanto Somol che Lohoff, passano di lato, ossia il contesto della riproduzione dell'insieme del capitale. Anche questo non era ancora del tutto completamente chiaro nel mio articolo di allora su Jungle World. Il che, come venne detto, dal punto di vista dell'economia d'impresa può essere presentato come produzione di merce redditizia, e rivelare il suo carattere "omeopatico" solo sul piano della massa del valore sociale totale. A questo livello, non solo è assolutamente disprezzabile la parte corrispondente all'ottenimento del valore reale ma, e soprattutto, questa piccola produzione di valore non può generare alcuna sostanza di plusvalore (ed è perciò improduttiva in questo decisivo senso capitalista), poiché i costi di riproduzione della corrispondente forza lavoro qualificata tendono ad essere più elevati di quella che è la sua capacità di ottenere valore. Tuttavia, quello cui Samol si riferisce non si presenta immediatamente nell'economia d'impresa, ma solo nel contesto della mediazione sociale (e in questo contesto di nuovo indirettamente, come tentativo di abbassare i costi di riproduzione di questa forza lavoro, attraverso l'esternalizzazione oppure attraverso la pura e semplice sparizione, a causa della razionalizzazione dell'attività di programmazione, attraverso programmi programmatori). Ma la stessa argomentazione limitata e tronca di Lohoff è già criticabile dal punto di vista immanente; essa risulta solo un'affermazione ideologica per cui tutta la produzione di conoscenza in generale dev'essere dichiarata non-merce, per poterla suppostamente slegare dalla struttura del valore e del prezzo dell'insieme della società, ed isolarla dal punto di vista della "teoria dell'appropriazione".
Il secondo punto riguarda la parte indiretta della produzione di conoscenza in generale nella creazione di plusvalore sociale totale, e merita qualche parola. Lohoff in questo caso forza un punto di vista da molto tempo noto della teoria della crisi della critica del valore: "Il progresso scientifico eleva le forze produttrici della società in generale e moltiplica anche la produzione materiale di capitale, ma non moltiplica la sua creazione di valore" (op.cit.). La celebre "scienza forza produttiva" eleverebbe perciò solo la produttività materiale, poiché le forze produttive risultanti, dice Lohoff con l'aiuto di una citazione da MEGA, "non influenzano in modo immediato il valore di scambio" (op.cit.). Questo, però, è solo una mezza verità e come tutte le mezze verità è particolarmente falsa. Perché la "scienza forza produttiva" in generale non aggiunge alcun valore e naturalmente non lo aggiunge "immediatamente" neanche al valore di scambio. Ma entra "mediatamente", ossia in modo indiretto, precisamente nel contesto che Marx ha elaborato ne "Il Capitale" come produzione di plusvalore relativo.
Cioè, malgrado la crescita della produttività materiale non solo non apporta alcun valore, prima di far diminuire, al contrario, il valore dell'insieme delle merci individuali, essa diminuisce simultaneamente i costi (valore) della merce forza lavoro, cosa che, sotto determinate condizioni, eleva la parte relativa del capitale nell'ottenimento di valore totale. Per questo la tematizzazione della "scienza forza produttiva", come potenziale di produzione di plusvalore, assume un posto centrale nelle argomentazioni delle teorie della crisi che negano categoricamente l'esistenza di un limite interno assoluto all'accumulazione reale; oggi particolarmente dirette contro la teoria della crisi della critica del valore. Lohoff usa lo stratagemma di presentare un trattato su "Il valore della conoscenza" con la pretesa che sia "fondamentale" (anche dal punto di vista della teoria della crisi) e, per la circostanza, offusca completamente la connessione fra "conoscenza" e plusvalore relativo; ancora una volta, un certificato di povertà per un "teorico".
Questo contesto ha già svolto un ruolo fondamentale nel "testo primordiale" della teoria della crisi della critica del valore, col mio saggio “Die Krise des Tauschwerts" (La crisi del valore di scambio, pubblicato nel 1986 su Marxistische Kritik, pertanto ha più di vent'anni), le cui argomentazioni vennero adottate dallo stesso Lohoff già negli anni 90. Quindi, davanti al suo attuale ragionamento, si deve chiaramente parlare di un regresso per quanto riguarda la teoria della crisi. L'argomentazione della critica del valore, a tutt'oggi, per quanto riguarda il plusvalore relativo è in un certo qual modo insufficiente, in quanto non viene definita con sufficiente precisione la relazione tra il capitale individuale e l'insieme del capitale nell'ambito della produzione di plusvalore relativo. Più tardi, con lo sviluppo del concetto di plusvalore relativo nel "Capitale", però diventa chiaro che la categoria di plusvalore in generale può essere determinata solo a partire da un contesto di mediazione dell'insieme della società, e non a partire da una "imputabilità" immediata relativamente alla produzione individuale di merce. Invece di intrapredere il necessario sviluppo, Lohoff, con la sua argomentazione regressiva, cancella completamente questo contesto di mediazione; ancora una volta a causa della sua intenzione ideologica di costruire in maniera isolata, semplicemente e puramente, la "assenza di valore" e il presunto carattere di non-merce della produzione di conoscenza. Mentre parla di una "de-socializzazione della ricchezza comune" (op.cit.) della produzione di conoscenza sul piano giuridicamente ridotto della proprietà, è lui che opera una desocializzazione teorica del contesto della mediazione, di fatto complesso, che non può essere suddiviso in momenti singolari "con valore" e "senza valore".
Il terzo punto riguarda un'inconsistenza teorica in Samol, che solo indirettamente ha qualcosa a che vedere con la produzione di conoscenza, in un certo qual modo perfino in controtendenza con la linea generale dell'argomentazione, e che qui verrà riferita solo perchè non si dica che sia stata ignorata. Samol si riferisce alla privatizzazione delle infrastrutture pubbliche, ossia, alla loro trasformazione in imprese redditizie di economia imprenditoriale: "Di fatto una tale trasformazione dell'educazione, dell'assistenza, della cultura, della salute ecc. in merci vendibili trasformerebbe le rispettive attività in lavoro produttivo. Ma tali servizi, per la loro natura, possono essere esercitati come valorizzazione del capitale solo fino ad un certo punto. Manca soprattutto la domanda con un potere di acquisto" (op.cit.). Questo è corretto solo sul piano dell'apparenza superficiale, cui a volte i commenti giornalistici cercano di circoscriverla, ma non è ammissibile nell'ambito di una riflessione teorica. Come già accennato, la mancanza di domanda con potere di acquisto dev'essere imputata in ultima istanza all'insufficiente produzione sociale di plusvalore, dalla quale inizialmente risulta tutto il potere di acquisto.
Una volta che la "cultura" in senso lato includesse, per esempio, la produzione di conoscenza comune universitaria, secondo il ragionamento di Samol, nel caso della privatizzazione, questa verrebbe immediatamente "trasformata in lavoro produttivo". Cosa che è in chiara contraddizione col concetto di Lohoff di pura e semplice "assenza di valore"  e del carattere di non-merce della "produzione di conoscenza" nel suo insieme. Di fatto, la produzione di conoscenza comune privatizzata verrebbe trasformata immediatamente in "lavoro" produttivo solo nello stesso senso, per esempio, delle imprese della circolazione, cioè, solo formalmente, in quanto in realtà vengono alimentate a partire dalla massa di plusvalore sociale totale. Il loro contributo indiretto alla produzione sociale di plusvalore relativa avverrebbe in ogni caso, sia nella forma pubblica che in quella privata, in quanto la questione della "mancanza di potere d'acquisto" per la produzione di conoscenza comune privatizzata attiene alla mancanza di produzione di plusvalore sociale totale, che è trasversale a tutti i settori (nel caso di una crescita sufficiente della massa assoluta del plusvalore sociale potrebbe sorgere sufficiente "potere di acquisto" per l'accesso alla conoscenza comune privatizzata). La confusione qui in agguato è dovuta ancora una volta alla soppressione del contesto di mediazione e alla limitazione alla "imputabilità" singolare definitoria che poi, senza connessione con la propria argomentazione di fondo, si ferma subito direttamente alla tradizionale riduzione della teoria della crisi ad un semplice "problema di realizzazione".
Mi sono qui riferito in maniera un po' più circostanziata all'inconsistenza immanente del ragionamento di Lohoff, rimandando comunque sempre nuovamente alla riproduzione del capitale nel suo insieme, che non può essere rappresentata come semplice somma di momenti individuali isolati e definiti separabili, ma che ha una sua qualità propria, alla quale sono subordinati i momenti mediatori della produzione e della circolazione immediatamente individuali e a partire dai quali, solamente, questi possono essere precisati. Questo si applica anche al carattere capitalisticamente improduttivo della produzione della conoscenza, sotto qualsiasi punto di vista, indipendentemente dalla forma pubblica o privata e indipendentemente dal carattere generale o imprenditoriale della conoscenza. Poiché anche i momenti di produzione di conoscenza, "senza valore" puro e semplice o relativamente alla creazione di plusvalore, fanno parte della condizioni oggettive della riproduzione capitalistica, poiché in caso contrario non sarebbero arrivati ad esistere. Tanto meno, la loro apparente immediata "assenza di valore" in sé può essere separata dalla struttura sociale valore-prezzo, così come la loro "riproducibilità senza lavoro". Al contrario, si manifestano necessariamente sotto forma di "imprevisti" (costi morti), così come è stato evidenziato più volte da Marx.
I costi morti, però, sono qualcosa di diverso dalla "assenza di costi"; non hanno in sé niente a che vedere con un'assenza della forma merce, devono essere necessariamente rappresentati sotto forma di denaro e di prezzo. E' vero - e per la teoria della crisi della critica del valore non è assolutamente niente di nuovo - che con la progressiva socializzazione i "costi imprevisti" crescono per ragioni obiettive, in quanto simultaneamente si abbassa la massa di plusvalore reale dell'insieme della società. E' tale discrepanza crescente a costituire precisamente il limite interno assoluto della valorizzazione. Si tratta, nel caso, di uno stato di crisi che coinvolge tutta la società, e che può essere superato solo attraverso una trasformazione sociale totale, ma non attraverso la divisione fra merci "normali", con sostanza di valore", e non-merci che si suppongono "anomale", senza sostanza, in quanto "beni universali" che in sé sarebbero già oltre la forma dominante. Lohoff, nel suo percorso che parte dall'ideologia dell'equivalenza immediata nella circolazione, passando per la "riproducibilità senza lavoro" di artefatti della conoscenza, fino al carattere "improduttivo" e tuttavia necessario del lavoro dell'informazione, della conoscenza e dei contenuto, non guadagna nemmeno un millimetro di terreno. Per questo il costrutto puramente ideologico dei "beni universali", nella svolta (per mezzo della teoria dell'azione) verso la "teoria dell'appropriazione", porta a conseguenze assurde e realmente barbare, come si vedrà più avanti. In ultima analisi, è ciò che implica ogni ideologia di alternativa immanente, e l'ideologia postmoderna dei "beni della conoscenza liberi" non costituisce un'eccezione.

8 – segue -

Robert Kurz

fonte: EXIT!


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