Il ligure Carlo Pastorino (Masone 1887 – 1961) ci presenta le sue esperienze di combattente nella Grande Guerra in Vallarsa e sul Carso. I suoi testi denotano una patina di forte moralità e sensibilità umana e a volte ciò può portare a una prosa un po’ mielosa. Ma questo è il mondo di Pastorino che poggia su solide fondamenta civili, ossia la fedeltà alle Istituzioni e alla Patria, e anche religiose, ossia un’intensa fede cristiana. Le sofferenze al fronte non intaccano le sue convinzioni; anche fare la guerra è un dovere civico e l’imboscato è un infelice da compatire, come spiega alla fidanzata a Milano, poco prima di tornare a combattere. La guerra uccide ma può anche far rinascere; il torinese Fenoglio in Vallarsa sente di voler rinunciare a una vita di nefandezze. Confessa i suoi misfatti; Pastorino ne accompagna la graduale risalita morale. L’ambiente solidale dei commilitoni ha trasformato un criminale in un buon soldato stimato da tutti. Il diarista è attentissimo all’umanità dei compagni cui si lega con rapporti di reciproca stima e affetto. Memorabile l’incontro con un maggiore valdostano e con un vecchio garibaldino vicino ai settant’anni; il giovane accompagna quest’ultimo in una ricognizione avanzata, notandone il coraggio e la prestanza. Terribile invece il resoconto di quanto capita a un gruppo di zappatori diciottenni, dilaniati da una granata mentre consumavano il rancio.
Rare e pacate, ma non insignificanti sono le sue manifestazioni polemiche. Butta via una sua lettera che probabilmente sarebbe stata bloccata dalla censura: “Le lettere gaie, si, arrivano agli amici e alle nostre case; non le desolate che non son da uomo d’armi, il quale deve essere immaginato ritto sempre e feroce in faccia al nemico”. Come altri soldati impegnati in prima linea, anche Pastorino ha una sensazione di disagio durante le cerimonie ufficiali che si svolgono nelle retrovie davanti ai comandanti. Gli imboscati che non vedono mai il fronte in quei momenti si fanno avanti con le loro uniformi linde e splendenti, spingendo da parte i fanti che portano l’odore delle trincee. La sensazione è che questi uomini sapranno occupare la scena anche dopo la fine della guerra, come viene ben spiegato in un passo che ci ricorda almeno altri due memorialisti della Grande Guerra come Carlo Salsa e Giovanni Comisso: “Con l’immaginazione sono corso all’avvenire; e ho visto che l’avvenire non sarà nostro ma di costoro. In tutti i campi saranno in testa, in tutti meno che in quello di battaglia (…) Nei cortei terranno tutta la via, loro; saranno i vessilliferi, loro; canteranno le canzoni di vittoria, loro (…) saran per essi i titoli, le prebende, i primi seggi (…)”.
In Vallarsa è la sete a tormentare i fanti; le colonne di rifornimenti sono bersagliate dai bombardamenti e spesso alle prime linee non arriva abbastanza: “Le ghirbe arrivano quasi vuote, flaccide come vesciche sgonfie. A ogni soldato un fondo di gamella: una golata, un respiro: e nulla più. Chi pensava a lavarsi gli occhi? Chi a pulirsi in qualche modo?”.
In un assalto, Pastorino è alla testa di un pugno di Arditi; l’attacco è temerario, diretto verso la selletta Battisti. Il diarista e Fenoglio guidano gli uomini, sotto gli occhi dei superiori. Ecco la descrizione dei momenti iniziali dell’operazione: “Solo, ecco, so che si corre, si cade, poi ci si rialza; sudanti, anelanti, tra il fumo e il fuoco. Mille incendi sono nulla in confronto a questo. È l’orrore. È il pazzo terrore che scalpita e rugge. Il mondo finisce”. La descrizione magistrale dell’attacco, condotto con furia quasi disperata, ci porta fino all’ultima fase in cui gli italiani filtrano tra i reticolati e sono a tu per tu con il nemico che poi fuggirà.
In seguito Carlo viene trasferito nel più sanguinoso fronte del Carso. Partecipa a una grande battaglia ai piedi dell’Hermada (questa è la parte del diario letterariamente più alta); viene fatto prigioniero e finisce a Therensienstadt, in Boemia. Qui riprende a scrivere, incoraggiato dai compagni di sventura. Nei primi tempi in Vallarsa aveva gettato via i propri libri, come se fossero cose inutili e buffe, appartenenti a un passato che cozzava contro il presente. L’io purificato dalla guerra si ribellava contro il vecchio io, spiegava il diarista. Aveva quindi eliminato i libri: “Lì cominciai a svolgere i fogli e a strapparli uno a uno, riducendoli in minuti pezzi”. È uno dei rari punti in cui il fronte con i suoi orrori sembra alterare la compostezza dell’autore, privandolo inoltre di una parte della sua identità. Finito il conflitto, Pastorino si dedica all’insegnamento e anche alla scrittura, ricomponendo la propria identità spezzata. Ha sofferto ma quasi senza lamentarsi, ha accettato tanti sacrifici, evitando di farsi interiormente scalfire dall’orrore, mantenendo la fiducia nell’uomo e il senso dei doveri del singolo verso istanze più alte. Il vittorioso ritorno alla scrittura, così fecondo di risultati, segnala che davvero le armi etiche di Pastorino erano più forti di quelle della guerra. La prova del fuoco può dirsi superata.