Prima o poi doveva accadere che nella filmografia di David Cronenberg si incrociassero inesorabilmente la sua indagine personalissima sull’uomo e il tema scientifico della psicoanalisi. Un incontro annunciato da tempo, visto che l’intera opera del regista canadese, ormai non più “inscatolabile” dentro il puro genere, non è che una ricognizione sull’uomo e su tutti i possibili stadi del suo essere. L’esplorazione di un corpo in continuo movimento, colto nella fase in cui si avvia a mutamenti fisici (“La mosca”, “Brood – La covata malefica”) o psicologici (“Inseparabili”, “Crash”) irreversibili; cambiamenti che sembrano quasi salti in avanti di un disegno evolutivo. Non c’è alterazione o lacerazione che interviene nella mente o dentro la carne dei suoi personaggi che non sia parte di un processo ri-generativo più complesso, un percorso inteso a ristabilire nuove coordinate dell’essere (umano). In Cronenberg, riflessione epistemologica e angoscia esistenziale non solo si incontrano e si armonizzano perfettamente, ma trovano anche una loro sintesi visiva ideale, grazie ad una messa in scena che riesce a mantenersi idealmente neutrale di fronte a qualsiasi sconvolgimento rappresentato, si tratti di parassiti sotto pelle o di pulsioni sessuali dirompenti. In più la sua è una filmografia che si distingue per l’eccezionale coerenza interna e per la continua ricerca che vi è impressa: non c’è episodio del suo personalissimo discorso filmico che non getti i semi per quello successivo.
Non esisterebbe infatti la riflessione dicotomica e psicologica di “Inseparabili”, se non passando attraverso la disintegrazione totale dell’essere fisico manifestato ne “La mosca”, né sarebbe rappresentabile la meccanica sessuale e distruttiva di “Crash”, senza prima la demolizione dell’illusione sentimentale realizzata con “M. Butterfly”. Come per lo scienziato, anche per Cronenberg ogni traguardo non rappresenta altro che il punto di partenza per la successiva indagine. Oggi con “A Dangerous Method”, il regista porta idealmente a termine il discorso iniziato con le due opere precedenti, le più asciutte stilisticamente e per questo – a torto – giudicate “normali” o meno dirompenti, ma che in realtà affondano le loro radici nei territori più invisibili ma non meno perturbanti della socialità. Se difatti in “A History of Violence” era il nucleo familiare e socio-culturale ad essere scardinato nelle sue fondamenta (per poi essere ricomposto in una nuova forma dopo la liberazione del rimosso), con “La Promessa dell’assassino” invece si assisteva, pur dentro una cornice da cinema di genere, alla messa in crisi dell’identità e al ripensamento del concetto stesso di “appartenenza”, in vista, anche qui, di una “rinascita” dell’individuo (e l’immagine finale di Viggo Mortensen a capo di un nuovo ordine, ne era il potente suggello).
In “A Dangerous Method” il regista, attraverso l’analisi del complesso rapporto maestro-discepolo-paziente instauratosi fra Freud, Jung e la giovane Spielrein, va dritto al cuore di questo scostamento identitario analizzando il progressivo ed inesorabile mutamento di personalità dei soggetti rappresentati, qui più che mai soggetti a continue inversioni del proprio essere (la Spielrein da paziente a studiosa, Jung da studioso a paziente). Se il pretesto è quindi offerto dalla particolare biografia dei tre personaggi, è pur vero che Cronenberg ritrae questo insolito triangolo sospeso fra la luce di nuove ispirazioni intellettuali e le ombre di un pericoloso rimosso (sessuale, familiare e, più sfocatamene, storico), come l’ennesima esplorazione sul tema a lui caro della contaminazione. Così, assistere allo spettacolo della ratio junghiana che cede sotto i colpi della sessualità sfrenata di Sabina Spielrein o al ridimensionamento della stessa mitologia freudiana, “contaminata” dal tema della morte come nuova forza pulsante, non è tanto diverso dallo spettacolo di un fisico ibridato progressivamente da un insetto o di una mente infestata da un germe televisivo.
Pur avanzando con uno stile molto più sorvegliato del passato Cronenberg (ri)costruisce questo momento cruciale del pensiero del Novecento, con lo stesso passo che contraddistingue i suoi lavori più audaci e (visivamente) sconvolgenti, rinunciando a certe sue tipiche astrazioni solo per rendere ancora più obiettiva la sua visione generale. È proprio grazie a questa lucidità stilistica che “A Dangerous Method” finisce per offrirsi non (solo) come nuova audace perlustrazione dell’inconscio, ma si trasfigura quasi in rappresentazione emblematica di un preciso e cruciale momento storico, quel momento in cui a confrontarsi non furono semplicemente le idee scientifiche sulla psicoanalisi, ma anche le ragioni culturali degli eventi. Sotto echi wagneriani che annunciano la tempesta successiva, le intelligenze qui messe a confronto non sono che evidenti metafore della storia: la fragilità ariana che si afferma attraverso la sopraffazione fisica (Jung), l’orgogliosa fermezza ebraica che però nasconde dentro i semi della futura sottomissione (Spielrein), la razionalità scientifica che vuole codificare una realtà suo malgrado sfuggente (Freud).
Tutti i personaggi con la loro vicenda personale, partecipano diversamente a questa rivoluzione, mentre la Storia (con la “S” maiuscola) nel frattempo decreterà i diversi destini di ognuno, facendo soccombere fisicamente la Spielrein (ma non le sue idee) e destinando i due studiosi a differenti conclusioni del proprio pensiero. Nonostante l’ambiziosa allegoria, sembra che a Cronenberg anche in questa ultima opera interessi più mettere in scena le dinamiche del cambiamento che l’importanza degli effetti successivi dello stesso. Ecco perché la figura della Spielrein è per lui l’epicentro perfetto di questo sisma ideologico, un po’come lo era già stato il personaggio di Geneviève Bujold che, in “Inseparabili”, incarnava il pretesto per operare la scissione psicologica fra i gemelli Mantle. La Spielrein come il virus di “Rabid – sete di sangue” o la bio-porta di “eXistenZ” che apre nuovi confini alla realtà, è il nuovo «strumento ginecologico per donne mutanti» che avvierà la “separazione” fra il maestro Freud e il discepolo Jung, sovvertendo gli ordini costituiti (del pensiero) e che, non a caso, è destinata a perire per mano degli eventi, scontando idealmente la novità delle sue intuizioni.
Anche in “A Dangerous Method” i sistemi vengono sovvertiti, ma non più al grido di “Lunga vita alla nuova carne!”, quanto piuttosto sotto i tagli silenziosi e profondi delle parole, che nel carteggio conclusivo fra Freud, Jung e la Spielrein si insinuano come altri demoni sotto la pelle pronti a sancire nuovi mutamenti. La psicoanalisi per Cronenberg non è che un Big Bang che ha liberato le idee per il nuovo secolo, il suo cinema invece sembra l’eco di questo universo ancora in tumulto, orgogliosamente fiero della sua infinita mutevolezza e ancora aperto verso nuovi sorprendenti viaggi. Non a caso il suo prossimo futuro porta il titolo di “Cosmopolis”…