La psicoanalisi di Hieronymus Bosch

Da Sulromanzo

La pittura fantastica di Hieronymus Bosch ci immerge in un mondo di enigmatici simboli, talvolta rosati, catartici e idilliaci, talaltra oscuri, fagocitanti e demoniaci. Una pittura di metafore, da cogliere nei particolari, che colpisce l’immaginazione e la catapulta in un mondo “altro”. Nietzsche diceva che il mondo è un manicomio. Bosch ci fa vedere, secoli prima, lo stesso manicomiale universo, caotico e apparentemente confuso, terra di nevrosi ossessive e desideri repressi, anticipatori della psicoanalisi freudiana.

Dall’analisi di Fraenger sulle opere del pittore fiammingo, interpretate in chiave ereticale, emerge un quadro in cui niente avviene per caso. Ogni figura è l’oltre inconoscibile: mostri acefali, rane-dio, brocche, necrofagi che divorano tronchi, bacchette, uova forate da cui fuoriescono inquietanti arti vivi, ierofanti, coltelli, scimmie, doppie teste, tunnel luminosi... Ciascun elemento non è frutto di una scelta casuale, ma colpisce l’occhio con significati di incisiva e analitica profondità. Si è detto che Bosch ha il coraggio di riprodurre su tela l’interiorità umana, gli spasmi di ciò che la psicanalisi definirà inconscio. Una dimensione alchemica e allucinata, un paesaggio dell’anima e dei visceri con impulsi divoranti e profondità ctonie, luci da stato comatoso, diavoli carnali, angeli effimeri e svolazzanti.

Nel pannello di destra del Giardino delle delizie, conservato al Museo del Prado, c’è Satana assiso su un trono. Il suo aspetto non è proprio allettante. È mostruoso: capo di uccello come il dio lunare egizio Thot, pentolone da sabba in testa – che conferisce un tratto ridicolmente oniroide – e piedi immersi in due brocche. Egli divora i dannati e li defeca dentro una bolla che finisce in un pozzo, dove altri vomitano e depositano le loro schifose deiezioni. Nell’immagine i riferimenti sessuali sono fortemente legati alla sporcizia naturale affine al male. Le bolle rimandano a una sorta di placenta. Si tratterebbe di un parto al rovescio, coerentemente col personaggio di Satana; un parto che, invece di condurre alla vita, porta alla morte e alle profondità infernali.

L’idea che l’avidità – assieme a doppiezza e astuzia – fosse la caratteristica principale del Diavolo trova corrispondenza nell’idea dell’Inferno come enorme fauce spalancata, pronta a macerare le anime dei dannati.

Nicola Remigio (Nicholas Rémy) narra nella sua Demonolatria l’episodio di un buffone di piazza che ingoia un carro di fieno con tutti i cavalli. Il buffone, ai margini della società dell’epoca, incarnava valori negativi e demoniaci per il solo fatto di essere fuori dalle regole. Una figura difficilmente inquadrabile, ingestibile, imprevedibile e oltremodo fastidiosa per la Chiesa dell’unico Dio cristiano antropomorfo, onnisciente, maschio e onnipotente. Il carro, nei suoi significati simbolici, ricorda molto da vicino il Trittico del Carro di fieno del pittore fiammingo (1516 circa, olio su tavola, m 1,35 x 2). Si tratta di un’allegoria della corsa al piacere. I personaggi si agitano convulsi nella speranza di arraffare più fieno possibile, simbolo di ricchezze. Per entrarne in possesso c’è chi è disposto a uccidere – come un uomo col cappello, curvo sul suo avversario – o a picchiarsi, come le due donne. Il carro, inoltre, è contenitore di peccato, ricchezze, lussuria, avidità, inganno e avarizia.

Il dipinto di Bosch mostra un’umanità incurante delle leggi di Dio, che viaggia verso l’Inferno. Paglia e fieno «sembrano intrattenere relazioni piuttosto strette con la sfera della morte, della stregoneria e del demoniaco... la paglia, tanto nel folklore tedesco quanto in quello francese fa riferimento alla leggerezza sessuale delle donne (o alla loro sterilità): un campo di valori che non esclude ed anzi si associa col riferimento alla sfera del demoniaco, della morte e/o della stregoneria (tramite l’idea della secchezza e simili)»[1].

Secondo una credenza tedesca il Diavolo assume l’aspetto del palo utile per fermare il fieno sul carro, Heubaum. Il Diavolo in Tirolo era il mostro (Ungetuem) della carrettata di fieno (Heufuder) e in latino striga è il termine impiegato anche per indicare il filare del fieno (Colum. R. R. II, 18): «cum faenum cecidimus... utrimque siccatum coartabimus in strigam»[2]. Nel XVI secolo il fieno era anche simbolo di falsità e inganno; viaggiare su un carro di fieno con qualcuno «era come dire prendersi gioco di lui»[3]. Dunque, l’associazione strega-fieno (e diavolo-fieno) è accertata e l’incorporazione del fieno presuppone l’assimilazione per osmosi di valori diabolici e negativi, sinonimo di un percorso umano verso le latebre oscure del peccato.

Remigio precisa che l’imbonitore di piazza ingoia anche i cavalli legati al carro e il conduttore. Il cavallo ambivalente, ctonio e uranico insieme, nell’Apocalisse è il nemico venuto da fuori e può incarnare guerra, carestia e peste, a seconda del colore che assume. Esso è simbolo dei sensi e di sfrenata libertà. Il conduttore è colui che guida le redini dell’azione e incarna potere decisionale. L’ingestione di tutti questi elementi indica l’illusione di far propri potere, libertà e peccato...

In fondo, l’arte di Hieronymus Bosch non nasceva soltanto dalla sua personale volontà di scavare dentro l’uomo eviscerandone il lato mostruoso, ma rifletteva un mondo realmente allucinato, in cui streghe, sabba e uno spaventoso Satana infante permeavano di sé stessi ogni aspetto della vita quotidiana, consentendo alla religione di inserirsi nel privato, annientando le coscienze, bruciando, colpevolizzando, torturando. Nessuno veniva risparmiato, neppure gli animali, spesso processati pubblicamente e puniti come peccatori emissari del Demonio.

I pannelli di Bosch, alla fine non fanno che mostrarci la storia del suo tempo, un modo come un altro per dire bugie raccontando la verità.


[1] A. Borghini, C. Pettenuzzo, Antropologia dell’arte come semiotica. Due interventi, in Storia, antropologia e scienze del linguaggio, Anno XIV, fascicolo 1-2-1999, pp. 54, 57.

[2] Ivi, pp. 57, 60.

[3] W. Bosing, Bosch. Tutti i dipinti, Taschen, Colonia, 2010, p. 48.


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