Magazine Psicologia
Riflessioni che hanno in tale pensiero la loro espressione.
Il vuoto che imprigiona l’esistenza, la consapevolezza evoluzionisticamente raggiunta, che all’unisono pongono davanti all’umano il nulla e il non senso della vita, fanno sì, che la dolorosa percezione del niente venga intenzionalmente e ingannevolmente offuscata da alchimie illusionistiche proprie alla vita stessa. Un operoso impegno insito alla vita per la vita, ove l’operosità coincide col processo sopravvivenza, dunque, con la ricerca e la conferma dell’avere in senso lato. Una lotta contro il niente che è vuoto concettuale di sé e non senso, una realtà questa dove l’umano non può che perdersi nella sofferenza dell’assenza. La consapevolezza ha “donato” la percezione del non senso di sé che è dolore, ed essendo la vita oscillazione d’assenza organica prima e rappresentativa dopo, l’uomo per trascendere tale dolore che gli è connaturato, trova senso nell’oggettualizzazione di sé, ma è un senso che sfugge via, poiché il senso d’essere mediato dall’avere non può che essere suggestione e inganno di sé.
L’illusione d’essere nasce qui, egli potendo concepire solo ciò che gli è proprio, ed essendo l’uomo, di fatto, una biomacchina che consuma per vivere, non può che percepirsi vivo proprio nell’atto del consumare. Egli per sentirsi, non può far altro che incrementare l’avere oggettuale e rappresentativo, cioè la propria immanenza.
Se l’uomo riuscisse realmente a trascendere la propria concretezza non otterrebbe altro che la dissoluzione, verrebbe meno la propria ragion d’essere.
La verità è ormai chiara, l’avere è la via per acquisire senso di sé, perché avere è colmare l’assenza che nella sua oscillazione è vita. Alla luce di ciò, la materia vivente che ha ragione di se stessa, difatti, cerca illusoriamente di darsi senso, e magicamente “concretizza” il nulla attraverso l’avere oggettuale e rappresentativo. Questa è la vita dell’uomo di questa terra, che sa di non essere niente, ma che lo stesso ostinatamente brama elevarsi al di sopra del niente. La contraddizione è chiara e pone in risalto l’intrinseca egoicità dell’essere umano, che per sua natura ha bisogno di avere per sopravvivere.
L’assenza è sofferenza sia fisica che psichica.
Il dolore psicologico non è altro che la trasposizione evoluzionistica del dolore fisico, così come il linguaggio metaforico è la trasposizione evoluzionistica del linguaggio concreto. Con l’incremento nel tempo di complessità dell’organismo, alcune proprietà sono evolute, mediante l’acquisita capacità processuale neo-corticale, da concrete in rappresentative. La sofferenza è una di queste, dall’assenza organica all’assenza psicologica la strada è filogenetica, il concreto che evolve nell’astratto. Il dolore che tanto attanaglia l’umano nell’incomprensibilità della sua esistenza, si rivela essere aspetto connaturale al processo vita. Esso è insito alla materia vivente, e ci appartiene come ci appartiene qualsiasi altra caratteristica che sia propria all’essere umano. La sua logica è connaturata a quella dell’esistenza, il dolore è conseguenza all’assenza e l’assenza è vita nell’oscillazione di se stessa.
La sofferenza è percezione d’assenza, e il comportamento ha il fine d’eliminare l’assenza che una volta colmata è di nuovo assenza. Il processo vita sia organico sia psichico non è altro che la continua oscillazione d’assenza e non assenza. Tale oscillazione costituisce informazione, quindi, vita, inoltre, senza vibrazione non ci potrebbe essere percezione di sé né del mondo. È proprio nell’oscillazione, cioè nella variazione, che si crea informazione percepibile.
Il flusso informazionale base della vita ha, in pratica, polarità opposte, qualità questa che è propria all’informazione.
L’essenza del discorso è proprio qui, sia l’assenza che è connaturata al vivente, sia il vivente che nell’assenza progredisce per deriva genetica, danno la chiara visuale del meccanismo connaturato alla vita. La vita è “ricerca” dell’eliminazione dell’assenza, dunque, della sofferenza, e l’adattamento è la modificazione continua attraverso cui la materia vivente “muta” per meglio colmare l’assenza e quindi sopravvivere.
In siffatta ottica, la selezione naturale ha inevitabilmente premiato i processi elaborativi più efficaci a perpetuare la vita stessa. Tali processi, selezionati come maggiormente adattivi, sono basilarmente quelli a natura egoica. L’egoicità processuale della mente umana è anch’essa una trasposizione evoluzionistica, in tal caso, dell’egoicità cellulare.
Di fronte alla realtà d’assenza propria del pianeta, la materia vivente non poteva per sopravvivere che organizzarsi ed evolvere processualmente in ambito egoico, ma la vita è il processo, di fatto coincide con esso, questi è un prodotto evoluzionistico che risponde all’assenza che l’ha determinato.
Il vivente, dunque, nelle sue più svariate forme, è la risposta all’assenza propria del pianeta, che è colmata attraverso il tangibile della vita, e che nell’uomo, evoluzionisticamente parlando, si amplia anche nell’intangibile che è premessa indispensabile all’avere tangibile.
Il pianeta è assenza e l’assenza è il regista della vita.
La natura autopoietica della materia vivente fa sicché ogni azione o condotta umana sia finalizzata, al di là dell’apparenza, a perpetuare la vita stessa. Il comportamento appare quale prodotto del libero arbitrio, ma in realtà è l’aspetto centrale del progetto natura, il suo fine è deterministico ed è confermare l’organizzazione della mente e del corpo, mediante le modificazioni periferiche costituite dalla struttura.
L’efficace manovratore è la nostra genetica, la memoria ereditaria è l’artista del programma vita.
Ciò significa che la condotta umana è selezionata al fine d’individuare la migliore soluzione adattiva, che mantenga immutata l’organizzazione organico-psicologica a seguito delle perturbazioni dell’ambiente altrimenti sarebbe la dissoluzione e poi la morte.
Il sommo obiettivo è, dunque, la perpetuazione della vita, non esiste altro scopo che non la vita stessa e in pratica tutto si riconduce a essa.
Il progetto natura è il solo artefice di ciò che accade su questo pianeta.
L’illusione d’essere i creatori del proprio essere nel mondo ricorda l’illusione percettiva dell’essere del mondo. Il reale è solo virtualismo antropomorfico, una sorta di realtà informatica esistente nell’inesistente.
Il punto cruciale cui si conviene è l’informazione, poiché essa è l’anello che ci congiunge con il mondo, una sorta di trait d’union in primis tra la mente e il corpo e in secundis tra noi e il mondo.
Noi esistiamo nell’informazione, siamo informazione, il mondo è informazione. Il nostro essere nel mondo è solo percezione di differenze informazionali, non esiste altro che informazione così fuori così dentro di noi. È la natura processuale della mente che concependo nell’informazione la propria definizione, determina il nostro essere nel mondo e l’essere del mondo.
L’assenza d’informazione è la morte.
Noi elaboriamo dati, differenze informazionali nel momento in cui entriamo in reciprocità con il mondo, e in realtà siamo sempre in reciprocità con esso non possiamo prescindere dal mondo, poiché esso ci determina ed è determinato. Una sorta d’inesistenza nell’inesistente, dove il nulla magicamente “materializza” nel momento in cui le due inesistenze entrano in relazione.
Il reale, quindi, si concretizza mediante l’informazione, ed essendo questa la peculiare caratteristica umana, il mondo è mondo, in pratica, nel momento in cui entra in reciprocità con l’uomo, al di fuori di esso, possiamo affermare che, non esistono recettori informazionali che producano coscienza pertanto esistenza. Non c’è nulla, ma nel nulla troviamo informazioni che sono il solo esistente, e l’esistente non è altro che informazione cosciente.
La visuale è inevitabilmente antropomorfica l’unica possibile, che ha nell’informazione la ragion del proprio essere.
La realtà umana è, pertanto, virtuale, non può esistere altro che illusione di ciò che non è, la conquista della consapevolezza ha indotto e sta, immancabilmente, sempre più inducendo a prendere atto del cosmico “inganno”.
La realtà è sempre più nitida, il fumo di credenze magiche che la rendeva indistinguibile, si sta dissolvendo facendo apparire sempre più netta la verità.
Non ci sono più Dei, favole di qualsivoglia genere o averi omnicomprensivi, che tengano fronte alla presa di coscienza del vero. La favola vista così come è stata sempre concepita, sta evaporando come una goccia d’acqua al sole facendo, immancabilmente, scorgere la cruda realtà del nulla.
Da: "I burattini di Dio - La paura del nulla" - Mazzani Maurizio - ed: Gruppo Albatros Il Filo, Roma 2010
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