Pigri e fuori dal tempo, questa la critica espressa da Marcella Bergamini, media director di Danone. Business People è andato ad approfondire questo giudizio con gli inserzionisti e con i diretti interessati…
Avrà forse un nome diverso, la guarderete dal display del cellulare, o dal monitor del pc, o dagli schermi sospesi nelle stazioni della metropolitana. O su chissà quali altre diavolerie di piattaforme che non sono ancora state inventate. Ma pure tra qualche anno, quando la rivoluzione digitale avrà compiuto il suo corso, sarà sempre la televisione, nel senso filosofico e non tecnologico del termine, la regina del planning e del media mix. Ne sono convinti tutti, dai principali investitori pubblicitari ai responsabili di alcuni dei centri media italiani. Anche se per qualcuno concessionarie e brand non si stanno muovendo con la giusta tempestività. Marcella Bergamini, che in Danone è responsabile della pianificazione pubblicitaria, aveva lanciato a ottobre, in occasione del convegno “Tv or not Tv”, un allarme ben preciso: «Mancano di approccio alla contemporaneità. Sono spesso pigri e non si sforzano di adeguarsi alla complessività delle nuove pianificazioni pubblicitarie», aveva detto la Bergamini secondo quanto riportato dal quotidiano ItaliaOggi. E ancora: «i numeri della Tv della mobilità ci sono, le aziende dichiarano nei convegni che la Tv è indoor, outdoor e in rete, ma poi finiscono per non investire sui nuovi mezzi». Salvo poi precisare che la colpa andrebbe ripartita equamente tra le aziende, che «vivono con tempi sempre accelerati», e i centri media dai quali «si auspica uno sforzo maggiore e meno legami coi mezzi di comunicazione tradizionali».Gianluca Iannelli, direttore marketing di Mastercard Italia, e David Rossi, responsabile comunicazione di banca Monte dei Paschi di Siena
Il vero problema è in effetti riuscire a «catturare il target in movimento tra i vari media», come dice Lamberto Dolci, senior vice president Identity management di Eni. Ed è questo il fronte su cui si stanno mobilitando gli inserzionisti. Perché ormai è chiaro a tutti che le regole del gioco sono cambiate, e che «seppure il 70% di copertura lo si raggiunge ancora con la Tv generalista, l’esperimento di Michele Santoro col suo Servizio Pubblico ha dimostrato che le cose stanno cambiando, e direi che le aziende, visto che fin dalla prima puntata tutti gli spazi pubblicitari sono stati venduti, sono disposte a seguire il cambiamento», continua Dolci. Le aziende dunque sono disposte ad allontanarsi – non ad abbandonarlo, per carità – dal sicuro alveo dei grandi network nazionali, da Rai a Mediaset passando per La7, per cominciare a cavalcare in maniera sistematica l’impulso che il digitale terrestre e il satellite hanno dato alla pay Tv e alle reti locali. Certo, c’è poi il discorso legato alla pianificazione sul web, altro media che allo stesso tempo ingolosisce e spaventa.
Ma il rovello degli investitori, ancor più che capire il mezzo e trovare il modo migliore per misurarne l’efficacia, è inventare il giusto contenuto. «In effetti per i prossimi anni io non vedo rivoluzioni, ma un progressivo spostamento sulla moltiplicazione dei mezzi», spiega David Rossi, responsabile area comunicazione di Banca Monte dei Paschi di Siena. «Ci sarà una perdita di potere molto lenta della Tv generalista affiancata dalla crescita di altri mezzi che tuttavia si basano sui contenuti televisivo. Dobbiamo cominciare a distinguere quel che si guarda dal mezzo su cui lo si guarda, lavorare e focalizzarci sul contenuto, più che sui dispositivi su cui viene visto. È un ambito abbastanza nebuloso, è vero, tutti mostrano grandi numeri, tutto sembra crescere. Non vuol dire che tutto funzioni alla stessa maniera, d’accordo, ma non significa nemmeno che non si debba cominciare a lavorare su piattaforme diverse, una volta strutturato un messaggio e aver capito su quali mezzi può andare. L’importante è che non si proceda più come si è fatto finora, producendo creatività per la Tv e poi declinandole su altre piattaforme». A questo punto bisogna capire se i centri media sono pronti a raccogliere la sfida, e se hanno gli strumenti per accompagnare, o meglio anticipare in chiave strategica le mosse dei brand sulle nuove piattaforme. Aspetto su cui per l’appunto si era dichiarata scettica Marcella Bergamini.
Carlo Momigliano, chief marketing officer di Mindshare, e Marcella Bergamini, media director di Danone
Interpellata da Business People, la media director di Danone ha voluto precisare il senso del suo intervento. «Il rapporto tra cliente e centro media, per come lo vedo io, si alimenta in modo scambievole, il centro media in qualche modo è condizionato dal tipo di cliente che ha davanti. Di fronte a uno scenario Tv in divenire, con logiche di approccio al planning nuove e di rottura, la tendenza è lavorare sul consolidato, soprattutto in termini di numeri. Ci sono investitori», continua Bergamini, «che voglio pianificazioni “safe”, a basso rischio, con valutazioni e risultati più semplici da trasferire ai vertici aziendali. Oggi invece i brand dovrebbero avere il coraggio di cavalcare anche le incertezze. Sia sui numeri, lavorando su campioni piccoli con tutte le distorsioni che questo comporta, sia con stime diverse sui singoli prodotti. Invece tendenzialmente si percorrono strade ben conosciute, e l’atteggiamento del centro media spesso deriva dallo stimolo del cliente. Anche Danone, che ha un approccio pionieristico e che sta dedicando parecchie risorse alle Tv digitali e al Web, a volte se ne dimentica. Non ci ricordiamo per esempio che la Tv è anche in mobilità. Però, tra le richieste che abbiamo fatto al nostro centro media c’è quella che ci provochi, che abbia un atteggiamento sfidante nei nostri confronti. Il più delle volte il centro media lo fa, anche se non sempre siamo pronti a cogliere queste sfide per l’impatto che hanno sulla creatività e per la conseguente complicazione dell’approccio creativo. Gli investitori a volte non lo fanno, si adagiano su posizioni consolidate, e il centro media, che in teoria dovrebbe proporre dei rischi, li segue. È un mea culpa collettivo, il mio».
Ci sono motivi ben precisi per cui è stato proprio Danone a lanciare l’allarme. E lo spiega Gianluca Iannelli, direttore marketing di Mastercard Italia. «Vengo dal largo consumo e ne conosco le dinamiche. Mastercard opera con un brand e un modello completamente diverso. Nel nostro settore c’è bassa concorrenza, ed è più semplice fare innovazione misurandone i risultati. È quasi come essere in una campagna stand alone. Nel largo consumo invece ci sono ogni volta almeno sei-sette concorrenti per categoria merceologica. Noi comunque abbiamo già fatto dei passi avanti nella direzione indicata dalla Bergamini», dice Iannelli.
Paolo Nanni, director of strategies, business analysis, planning and control di Wind, e Lamberto Dolci, senior vice president Identity management di Eni
«Fino al 2008-2009 la nostra pianificazione è sempre stata Tv-centrica. Negli due ultimi anni invece, seguiti dalla nostra agenzia che non si è mai tirata indietro quando si è trattato di provare strade nuove, abbiamo cavalcato il cambiamento del media mix, in un primo momento sfruttando le Tv non generaliste, (Sky e Mediaset premium in primis), e arrivando col tempo a rovesciare il peso delle Tv pay rispetto alle free. Adesso siamo allo stesso livello, con un rapporto 50-50, mentre prima se non era 0 a 100 poco ci mancava. In attesa di giocare la carta dei social network, abbiamo lanciato il nostro canale su YouTube, che totalizza due milioni di views al mese, e sfruttiamo il viral grazie alla personalizzazione che gli utenti fanno della campagna “Priceless”». Anche in Wind si dicono soddisfatti di come il loro centro media sta affrontando il cambiamento. «La pianificazione deve essere in linea con le esigenze, con l’apertura al cambiamento e con gli obiettivi del cliente», dice Paolo Nanni, director of Strategies, business analysis, planning and control di Wind. «Il nostro centro media è sempre stato propositivo e aperto alle novità, ma con la giusta cautela e valutazione dei rischi visto che è la consistenza dei risultati ciò che siamo tutti chiamati a produrre. Ci troviamo in una fase di ciclo economico non espansiva, che non permette tentativi e sperimentazioni e che obbliga a fare scelte di trade off che devono necessariamente essere positive. Tutto questo in un contesto di estrema fluidità e rapidità evolutiva, che non consente di capitalizzare appieno le esperienze prodotte. In ogni caso il mix dovrà essere sempre adeguato a ogni necessità di comunicazione, sia quelle più tattiche sia quelle più strategiche. La lettura dei risultati e l’analisi dei rischi eventuali saranno la vera cartina di tornasole di ogni passo e ci aspettiamo dalla nostra agenzia una completa aderenza a tale approccio».
Ma qual è il parere dei diretti interessati, i centri media? In certi casi sono proprio i loro responsabili quelli più critici rispetto allo status quo. «Da un punto di vista soggettivo, guardando a quello che facciamo e proponiamo oggi, l’analisi di Marcella Bergamini rivela un ruolo rilevante del centro media, che è quello di capro espiatorio», ironizza Carlo Momigliano, chief marketing officer di Mindshare. «In questo senso sono in disaccordo con lei. Ma capisco che, se a dispetto della grande attività propositiva svolta nei momenti di contrazione di budget i risultati sono modesti per una riluttanza – soprattutto da parte dei grandi gruppi – ad abbandonare strade vecchie, possa esserci del disappunto. Però adottando un punto di vista oggettivo, se noi centri media elaboriamo modelli innovativi – e su questo sento che non siamo in ritardo – senza però riuscire a convincere i nostri interlocutori, siamo comunque colpevoli. Anzi, se conosciamo, sviluppiamo e proponiamo nuove strategie ma non riusciamo a convincere, siamo ancora più colpevoli».
Luca Vergani, ceo di Mec, e Federico De Nardis, presidentee amministratore delegato di Maxus Italia
Decisamente meno disposto ad attaccare la propria categoria Luca Vergani, ceo di Mec. «In Mec la resistenza ad adottare formule di planning innovative è poco sentita: l’investimento in formazione tecnica e manageriale, in diversificazione trasversale delle competenze, in osservatori di tendenze tecnologiche e in tools atti a misurare le performance su metriche aziendali, ci stimolano quotidianamente ad approcci sfidanti e non conservativi. Va proprio in questa direzione la scelta di legare quote di revenue a Kpi di business. Stiamo comunque parlando di cambiamento dentro al cambiamento e il primo driver d’innovazione è la tecnologia. Le modalità ad-server evolute, ad esempio, già oggi consentono l’erogazione ed il monitoraggio di qualsiasi tipo di comunicazione digitale indipendentemente dal mezzo. E in logica di evoluzione del planning e favoriti dall’alchimia professionale con h-art, Business digital factory di GroupM, proprio in questi giorni stiamo presentando un nuovo prodotto, Had, che integra attraverso il mobile comunicazione tradizionale e digitale. Il ruolo delle agenzie è quello di canalizzare e riempire di sostanza l’innovazione; d’altro canto per cavalcare nuove sfide è necessario un po’ di spirito pionieristico da parte delle aziende». Federico De Nardis, presidente e amministratore delegato di Maxus Italia, è invece sostanzialmente d’accordo con il giudizio della Bergamini. «Mettiamola così, credo che questo mondo abbia ancora bisogno di un grande scossone. Il centro media, una definizione secondo me non più attuale», spiega De Nardis, «nasce in un mondo Tv-centrico. Ma dal 2000 in avanti il mondo è cambiato radicalmente, mentre le agenzie, tutte, anche quelle creative, non sono cambiate abbastanza. In questo senso credo che la Bergamini abbia ragione. Agenzie e brand devono avere più coraggio, è corretto. Le agenzie devono stimolare di più i loro clienti, anche con proposte di rottura rispetto al passato, ma anche le aziende devono provare soluzioni senza la certezza del risultato. Adesso non c’è un benchmark rispetto alle performance dei nuovi media, ce lo dobbiamo creare, e l’unica maniera che abbiamo è provare. Il nostro compito è quello di continuare a spingere, a convincere a sperimentare, e fornire strumenti di misurazione nuovi. Il rischio vero è smettere di sperimentare in fase di difficoltà».
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