La Puglia allo specchio: Nunzio al servizio del boss

Da Sulromanzo

Ci sono momenti nei quali conviene fermarsi a ricordare. Prima metà anni Novanta. A Carrassi, davanti al carcere minorile su viale Giovanni XXIII, aspettavo il 12, un bus speciale che ci portava ogni mattina in più di cento a fare le superiori a Japigia. In fondo, dove termina via Caldarola, cinque o sei chilometri tutti in città, pressati come sardine dentro la scatola arancione del pullman dell’Amtab. A volte così stretti che le porte faticavano ad aprirsi, e a nulla valevano le nostre rimostranze contro il sindaco di allora. Schiacciati contro i finestrini, sudati, attraversavamo un pezzo di Bari per immetterci sul viale della droga. Via Caldarola era una sorpresa ogni mattina. Capitava di restare fermi in attesa che si diradassero le auto dei compratori di eroina e cocaina. Erano così tanti che spesso si restava fermi sul grande viale per qualche minuto. Noi andavamo a scuola, loro al mercato. Il nostro bus come una spola indifferente tagliava il quartiere di Savinuccio, vomitava il suo carico e tornava in deposito o cambiava magicamente di numero, di corsa, di zona.

‘Ti ricordi quando facevamo filone?’

I miei amici più cari erano di Japigia. Quando non entravamo in classe ci piaceva bighellonare per i larghissimi viali del quartiere. Ma in quegli anni io potevo farlo solo accompagnato da un abitante del posto. Ero un agente patogeno, uno straniero agli occhi degli spacciatori che viaggiavano sui Ciao, noi sulla Vespa: divisi nello stesso club della Piaggio. Noi con gli zaini Invicta, loro con le bustine sotto il sellino, recuperate tra i mattoni dei campetti che si aprivano tra un condominio e l’altro.

Lì ho conosciuto Nunzio. Primogenito di una famiglia disgregata: genitori separati, madre troppo avvenente e giovane per essere ritenuta rispettabile, padre assente e manesco, un fratello minore sfatto di tavor. Nunzio non abitava a est di via Caldarola, nella zona 45, come la chiamavano tutti, nel casermone bunker di Savinuccio, ma vicino al Sacrario Militare, nella zona bene e più nuova di Japigia. Adolescente complesso, negli occhi una fiamma rossa di rabbia, nella bocca uno slang inadatto alla strada quanto alla scuola: un cocktail di bene e di male. Allora gli scagnozzi di Savinuccio reclutavano quelli come lui nelle palazzine per bene del quartiere, irradiando i traffici, infestando la buona società. Cominciavano regalando il fumo, poi vendendolo a prestito, e dopo si facevano restituire il debito chiedendo di trasportare la droga dal porto al quartiere, dal quartiere al San Paolo, a Triggiano, a Torre a Mare, a Mola, almeno fino a Conversano. Un motorino, un pacco sotto il sellino, una canna con il pusher e Nunzio diventò un tramite tra Japigia e il resto della città. Seguendolo si poteva ricostruire il tragitto della droga. Non si faceva di eroina, era pulito, perciò poteva conservare la roba in casa: sua madre non c’era mai e gli sbirri e i carabinieri non avevano ancora cominciato a perquisire il suo condominio. Nunzio mi voleva bene perché ero innamorato di una sua amica. E mi avvertiva quando non era il caso di venire a Japigia.

‘Oggi meglio di no. C’è movimento’.

Eravamo adolescenti. Si stava per strada come oggi si va in un bar. Marlboro di contrabbando, una cannetta… poi arrivava qualcuno in motorino e Nunzio spariva risucchiato dalla porpora del tramonto dietro i palazzi. Poi per qualche tempo non l’ho più visto. Trascorse qualche settimana e ricomparve con un taglio assurdo di capelli e un paio di Dr Martens luccicanti ai piedi.

‘Sono stato in Olanda’.

Amsterdam, il sogno estivo di ogni ragazzo. Favoleggiò dei coffee shop, delle puttane. Ma eravamo ad aprile e lui aveva deciso di smettere di studiare. Un amico mi disse che era andato lì per conto dei capi, che Nunzio stava crescendo e che adesso girava armato.

‘Una pistola. La tiene sul terrazzo di casa’.

Abitudine tutta barese, questa di nascondere le armi sui terrazzi dei palazzi meno sospetti, lo facevano e lo fanno ancora perfino a Bari Vecchia. Nunzio divenne più scostante, quasi antipatico. Ci regalava il fumo ma ci diceva di sparire. Stava cambiando qualcosa.

‘Ma che succede, Nunzio?’

‘Il quartiere non è più sicuro. Ve ne dovete andare’.

Che fosse cominciato il declino ce ne accorgemmo quando vennero dei ragazzi a prenderci a schiaffi perché fumavamo per strada.

‘Ouh!’

Non una parola, ci intimarono di sparire. Sotto i giubbotti la protuberanza del calcio delle pistole. Savinuccio stava calando e il quartiere non era più sicuro. Quelle erano le sue sentinelle in azione. Fu allora che vidi Nunzio per l’ultima volta. Io salivo dalla mia ragazza, lui scendeva le scale.

‘Come stai?’, mi domandò con un sorriso senza più denti fissi. Era smagrito, perso. C’era cascato anche lui, nell’eroina?

‘Come ti senti, Nunzio?’

‘Bene’, mi rispose battendosi una mano sulla pistola che gli gonfiava la patta.

‘Ricorda sempre una cosa, tu che non sei di qua. Io non ho mai sparato’.

Me lo disse così, come una sentenza consegnata al futuro. Era sincero, per questo non credo a quella voce che fa di lui un assassino che adesso sconta la pena sottoterra.

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