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Quel che farò, quindi, utilizzando un espediente invero poco originale ma sempre fruttuoso, sarà addentare madelaines irrancidite cavalcando la setlist del concerto (tra le ròbe più affascinanti che ho scoperto nell'anno 2013 ci sono la linea nigra, il coregone carpiato, la storia di uno delle Simpatiche Canaglie diventato omicida e l'esistenza d'un sito che riporta tutte le setlist di tutti i concerti, me l’ha suggerito Elenini, ed Elenini ne sa) spudoratamente riprodotta su Spotify, forte della convinzione che basterà inforcare le cuffie e ascoltare affinché tutt’un turbine di ricordi mi si possa librare dalle mani, come si libra un branco di colombe dalle gabbie negl’attimi conclusivi d’un matrimonio.
Le birre si scaldano già tra le mani, le sigarette consumandosi nell’attesa consumano l’attesa, sul prato è già molte corone di fiori, molto dark, molti passeggini, molte maglie con le date dei tour e poche sciarpe - la sciarpetta celebrativa dei concerti mi è sempre sembrato affair da parrucchieri, visagiste e commesse di studi dentistici.
Ragazzine distribuiscono mentos e preservativi, preparando gl’astanti all’amore ecumenico - e sicuro, e profumato. Bandiere solcano ingiustificatamente i cieli romani: come sarebbe a dire Filippine?, cosa c’entra la Lituania?
[l'incomprensibilmente assente bandiera di Vanuatu]
Contrappasso all’impazienza dell’amico dell’America Latina - che prorompe nel sibilo di un rioplatensissimo La puta que te pariò, Sigurrò! - con norrena puntualità il buio si stende sulle schiene nude, le efelidi, i capelli rossi delle ragazze che ci si stagliano davanti, e Yfirbord ci cola nelle orecchie come sudore cartilagineo.
Non vorrei fare la figura del Ray Bradbury, ma la socialcositàè davvero piscio nelle orecchie: youtube facebook twitter e tutto il concistorio, davvero, rovinano l’estasi del momento, sono puzzo d’urina sulle parole skip the light fandango. Con l’ignobile intento di catalizzare visualizzazioni e pollici alzati per il video sgranato del primissimissimo istante del concerto, centinaia di schermi luminosi obnubilano la vista dell’archetto che ondeggia sulla chitarra di Jonsi e delle luminarie che suscitano sul palco sensazioni di campo di grano pregno di lucciole. Display a contrasto come piscio, nelle orecchie e negli occhi.
Qualcuno si chiede se hai visto mai a un certo punto ci si riesca a metter tutti seduti sui plaid, in bucolica comunione, votati all’ascolto attento. La smentita, secca, gli correrà incontro di lì a poco con gli occhietti dell’emozione. L’istante in cui il pezzo inizia a scemare con uno strappo di vinile neppure lo avvertiamo: sulle spalle pressione congiunta di irpini in vacanza, curiosi impenitenti, eterni infelici della visuale, patiti della Migliore Posizione Possibile. Che faccio, vado verso avanti?, chiede qualcuno. Vai, vai, gli fanno eco i commilitoni, in marcia verso cosa, poi, ci sarebbe da starglielo a domandare, se ce l’hanno una risposta.
[condividi questo elemento]Su Brenninsteinn, che è il secondo pezzo in scaletta, per me è già ora di bilanci morali. Accorgerti che stai invecchiando è tutt’uno con l’appalesarsi di certi segnali inequivocabili: le mani raccolte l’una nell’altra, dietro la schiena, per affrontare una salita discretamente impervia; trovare più allettante sedere su una sdraio sotto le stelle piuttosto che correre sul sentiero che mena ai covoni per baciarsi con i demoni nudi dentro; riconoscersi pronti a stilare bilanci moralizzanti quando sei soltanto al secondo pezzo in scaletta.
La vista, il senso della vista, in un concerto come questo - quel come questo è forse già embrione d’un cambio di prospettiva incombente - imbarbarisce, svilisce, fa sì che si perdano via dalle tasche briciole di significanza. Le caviglie luminose delle ragazze abbronzate, la carta d’argento dei panini, l’arco di schiuma che la birra deposita sui bicchieri, la cenere che s’arrostisce sulla punta dei drummini, ogni cosa che ci galleggia accanto in questa placenta di benevolenza assume i connotati distorti del cafone, dell’indegno, dell’inopportuno.
Glòsòli è una parola cremosa, balsamica, decongestionante: mi ricorda una pomata che si spalmava sulle mani per combattere le screpolature del freddo e della paura - e il relativo spot, so eighty.
Le percussioni Passo Di Marcia che scandiscono il tempo di Glòsòli, ecco, se esistesse una sauntràcca originale per i passi di marcia dei soldati semplici della V Armata 46a Divisione Fanteria quando battono in ritirata sulle rive del fiume Volga dopo la concente sconfitta dei Pregiudizi Gabrièllici, quella sauntràcca sarebbe Glòsòli a loop - effetto balsamico, espettorante, e via ogni titubanza, come con un colpo di tosse ben detonato.
Da questo pezzo in poi - colpo di reni che ridefinisce ogni regola metrica - Sigurrò fa già rima, per me, con Amore; e le altre ventimila?, trentamila? persone che ci fanno, qua?, sono impiccio, affanno, bug dell’intimità, clacson di traffico urbano che copre e il tintinnio del carillon e dello xilofono. Perché non ve ne andate tutti quanti a casa?
Vi amo tutti, penso e sibilo; via amo e vi odio tutti, a un tempo.
[la terza e ultima parte domani]
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