di Gaetano Montefrancesco
Quaremma salentina
Il quaranta è un numero simbolico spesso presente nelle Sacre Scritture, che indica una “compiutezza”. Il diluvio universale durò 40 giorni e 40 notti; gli Ebrei impiegarono 40 anni per fuggire dall’Egitto, dove erano tenuti prigionieri, e raggiungere la Terra Promessa, la Palestina; Mosè stette 40 giorni sul Monte Sinai prima di ricevere da Dio i dieci Comandamenti; Gesù Cristo, prima di iniziare la sua predicazione, stette 40 giorni nel deserto; furono 40 le ore che trascorsero dalla morte di Gesù Cristo, il venerdì, alla sua Resurrezione; le donne dovevano purificarsi per 40 giorni dopo il parto.
Con l’avvento del Cristianesimo, la moglie del Carnevale diventa la “Quaremma” a Copertino, la “Maremma” o “Caremma” a Gallipoli, “a Quarantène” a Martina Franca e nel barese, storpiatura del termine Quaresima, il periodo di 40 giorni che precede la Pasqua, periodo di penitenza e di sacrifici.
Questo numero è anche presente nella tradizione laica: per esempio, Alì Babà e i 40 ladroni; quarantena (isolamento forzato, della durata di almeno 40 giorni, per limitare la diffusione di malattie infettive o altro stato pericoloso); quarantore (nella liturgia cattolica l’adorazione del Sacramento che rimane esposto ai fedeli, in determinate ricorrenze, per la durata di quaranta ore consecutive), “quarantale” (nell’antico gergo salentino sta ad indicare sia una misura agraria salentina, utilizzata nel territorio di Nardò, che l’ampio solco che i nostri contadini aprivano, all’inizio della primavera, tra due filari di vite).
La “Quaremma” compariva sulle terrazze delle abitazioni e sui pali della luce elettrica o appesa ai crocicchi delle strade, il mercoledì delle Ceneri, quando ormai le festività carnevalesche erano finite. Veniva comunque sempre collocata in posizione ben visibile, in modo che tutti, guardandola, fossero spinti alla penitenza e al sacrificio, propri della Quaresima.
Si trattava di un pupazzo di paglia con le sembianze di una strega, brutta, vecchia, vestita a lutto, il capo coperto dal fazzoletto nero. Anche oggi, nel giudicare una donna sciatta e poco femminile, si usa dire: “Pare na quaremma!”. Rappresentazione spagnola della Quaresima con sette piedi, che raffigurano le sette settimane (da L’ultima festa di P. Sisto, Progedit, Bari 2007, fig.33).
Tra le mani reggeva il fuso e la conocchia, cioè la lana da filare, simboli del tempo che trascorre, trasformazione del mito pagano delle tre Parche tra le quali una, Cloto, era la filatrice della vita degli uomini.
Ai suoi piedi o all’altezza della cintola aveva un’arancia selvatica, una “marangia”, che con il suo sapore acre rappresenta la sofferenza, o una patata o una melograna, nella quale erano conficcate sette penne, che scandivano le sette settimane che intercorrono, dal mercoledì delle Ceneri alla domenica di Pasqua.
Il suo aspetto truce, non curato, era un modo per esorcizzare la paura delle carestie, molto frequenti nei mesi di marzo e aprile, della morte, delle malattie e anche di essere in tema con la Quaresima, periodo di penitenza.
Ogni settimana che passava, le veniva tolta una penna. Alla fine, il mezzogiorno del Sabato Santo, momento in cui fino alla metà degli anni ’50 del 1900 si celebrava la Resurrezione di Gesù, ciò che era rimasto del pupazzo veniva bruciato o semplicemente distrutto dalle schioppettate di qualche bontempone tra le grida e il divertimento dei presenti: la penitenza era finita, via libera ai banchetti e al divertimento.
La tradizione della “Quaremma”, per quanto ricordo, non era molto sentita a Copertino, anche se qualche fantoccio compariva di tanto in tanto sulla terrazza di qualche abitazione del Centro Storico. Poi, intorno agli anni ’80 del 1900, è scomparsa completamente e i giovani certamente non ricordano questo aspetto folkloristico paesano. Oggi (2011) la tradizione è ancora viva nel barese e nel sud leccese, principalmente a Gallipoli e ad Alliste, dove si svolge un concorso che premia la “Quaremma” più originale.
Le FesteGaetano Montefrancesco